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il valore dei soldi

Uno pensava di lavorare in cambio di soldi, e che i soldi gli servissero a consumare, cioè a soddisfare dei bisogni.

Di cui poi la maggior parte sono indotti, nocivi, insoddisfacenti. Brutto, ma volendo è anche peggio.

In realtà, i soldi sono un riconoscimento sociale che fornisce identità ad una persona in quanto attore economico, produttore di reddito e consumatore. Una identità a buon prezzo. Tu sei i soldi che fai e spendi.

Infatti la favola della retribuzione del lavoro ha un presupposto per nulla scontato: che il lavoro che facciamo abbia un senso. Che, oltre a far girare denaro, serva, faccia del bene, faccia felice qualcuno.

Invece la maggior parte del lavoro che facciamo è inutile.
E allora lo scopo dei soldi non è di compensarci per la vita che il lavoro ci sottrae, ma di dare un senso al lavoro che facciamo. E quindi a noi. Una identità a buon prezzo.

precarietà. è davvero un male?

non è da trascurare il lato esistenziale positivo della precarietà: per chi come me è “diversamente precario”, il potersi definire sulla base di una posizione lavorativa (che ci raccontiamo) stabile è una comodità pericolosa.

un’occasione in meno per farsi domande.
una routine che irrigidisce le giornate.
un enorme incentivo a sedersi nella propria situazione in quanto garantita. al conservatorismo sociale.
una fonte di senso di colpa nei confronti dei nostri colleghi meno fortunati.
ci autoricattiamo ad accettare il lavoro come un dato di fatto e non un modo altamente subottimale di gestire bisogni e capacità delle persone.

certo, queste non sono sbarre. ma un piano inclinato si.

stiamo insomma su una superfice esistenziale che pende di più verso l’appartenenza alla casa al lavoro al futuro. nulla che non si possa risalire volendo, ma la gravità è la gravità.

la superfice esistenziale del precario sembra più inclinata verso la non appartenenza, verso la sussistenza al presente. l’afferrare ogni occasione di gioia e di cospirazione. questo è stato quello che mi è piaciuto di questo romanzo. ben consapevole che di romanzo si tratta.

diventa più chiaro se per un momento ci permettiamo di sognare. non roba tipo lavoro dignitoso per tutti. sogni migliori. tipo la fine del lavoro e del denaro.

allora tutto quello che avremo accumulato, la nostra posizione di privilegio, le proprietà, se ne andranno in cenere. e allora perché lavorare più di quanto serva per la sussistenza?

certo è una cazzo di prospettiva millenaristica, perché la rivoluzione che abolisca il lavoro ed il denaro è un periodo ipotetico del terzo tipo.

ma pur sapendo questo, valutare il proprio presente dall’ottica dei propri sogni migliori, se i sogni sono davvero buoni, può essere illuminante.

affinità e divergenze tra il compagno magri e noi. più che altro, affinità

la mia vita è – come appena dissi – mia.

ho il diritto di usarla come voglio.
ma neanche “diritto”, ne ho la facoltà.
ce l’ho, se e quando non la cedo ad altri per qualche inganno. per ricatto convenzione giudizio comodità ignavia disattenzione costrizione.
il più delle volte, la si cede per disattenzione.

l’esistenza umana è definita dalla mortalità.
non a caso, l’immortalità è più spesso che no una distopia.

quindi il problema è che ci sia vita prima della morte. e va affrontato in positivo, cercandola e costruendola.

ma poi significa anche che ho pure la facoltà di finirla, se e quando vorrò farlo.
esistenzialmente lo rivendico.

se capiterà, preferirei essere in grado di fare da me.
alla Monicelli, diciamo. senza coinvolgere altri nell’atto se ho la possibilità materiale di cavarmela da solo. senza lasciare sensi di colpa. ma anzi dei bei saluti per chi continua.

perché bisogna sempre ricordare che io e te e tutti gli altri, se volessimo, saremmo materialmente in grado di farla finita in mezza giornata.
a prendersela comoda. è una facoltà insita nel possedere un corpo anche solo vagamente abile.

e visto che i diritti, le libertà, o sono di tutti o non sono di nessuno, rivendico questa facoltà per tutti.

facoltà, potenzialità di scelta.

che il problema, quello che i cattolici proprio non riescono nemmeno a concepire, è quello della scelta individuale.
che è diversa per ognuno. per ogni momento e luogo. per umore convinzione coincidenza.

che ora non so nemmeno dire a quali condizioni lo farei io, figurati se è possibile anche solo pensare di dettarlo ad altri.

percui nel mio sogno migliore di società c’è anche la possibilità di farsi aiutare se non si è in condizione di. e se qualcuno è disposto a.

e se la società non è ancora pronta si fotta.
cioè, la lingua è una cosa viva, è fatta delle parole che vengono parlate.
lo stesso per il discorso pubblico, è fatto degli argomenti che vengono argomentati.

enti inutili. anzi dannosi

istituzioni. la loro età emotiva non supera mai l’adolescenza.
è facile da dimostrare, basta utilizzare lo strumento giusto per il lavoro:

“le istituzioni, per istinto di autoconservazione, creano le condizioni che le rendono necessarie (rubando in questo modo alle persone l’autonomia di gestire le proprie relazioni).
se per assurdo una istituzione diventasse adulta, cosa farebbe?
creerebbe le condizioni per non essere più necessaria
invece che il contrario, come fanno.”

per questo non possono esistere istituzioni adulte.

rimane da fare una semplice operazione di complemento, e rimangono quelle infantili.

e quelle variamente estinte.

eppure
l’età adulta delle istituzioni ha un nome. anarchia.

o almeno, questa è la mia definizione di.
che di essere anarchici c’è tanti modi.
uno per ogni persona. e per ogni giorno.

e il bello è che non si è implicati a priori in quelli degli altri.

gli esseri umani invece. mi piace pensare che non abbiano bisogno di istituzioni.
cioè, almeno in potenza. ma è una fatica.

che non si abbia bisogno di voti banconote e fucili. di delega. di chiese.
di domande retoriche. di promesse più lunghe dello spazio di un discorso.

eppure siamo abituati proprio a questo. assuefatti.

quello che non capisco è a vantaggio di chi, perché
il possedere un potere. rende infelici quanto il subirlo.

gli esseri umani invece. tutto ciò che vive, anzi. per definizione, cambia.

la parte migliore

E mi riempio di languore.
rievocando promesse che non sono state fatte.
che mi farebbero paura se.
che le
che poi non
meglio che
paura tanto da fare che non.
Che le lascio scivolare via nel tardo meridiano.
Mi scaldano ma senza brivido
senza sostanza
né durata
che non è difficile, senza cozzare a occhi incapaci contro la realtà.
Che non, senza navigare nell’incertezza.

E tanto questo cielo è bellissimo lo stesso. Anche immaginando che sei qui. E che sai fermarti a guardarlo e respirare la mia vibrazione. Come io quante volte ho respirato la tua. Quante lo farei.
Quante ancora potrò.
Quante mi chiederò se non sia abbastanza.
Di andare a senso unico.
Perché io se sono così sono tanto bello. E forse non deve andare sprecato.

Perché non è l’amare che importa, ma come l’amare ci rende.
Come ci rende.
Come ci tende.
Come ci spende.
Che poi
ne hai sempre ancora.
Ma solo se ti spendi.
Se.

E poi in fondo è sempre di me che mi innamoro.
cerco solo una musa che sappia tenere il ruolo.
Ed è tutto un lasciarsi guidare. Dirigere.
Un prestarsi ad una parte.
Reciproco. Ma non a turno.
La magia rara è farlo nello stesso tempo.

A dirselo
non sarebbe neppure una cattiveria.
Ma a dirselo rovina tutta la poesia del teatro.
Ed è di nuovo vertigine di incertezza.

Che se io amo e tu no. sono io che mi prendo la parte migliore.

 

2 settembre 2011. tabacalera. cortile posteriore. sedie da cinema.

dovere

amici che si scandalizzano per (l’ennesimo caso di) censura alla RAI (EIAR).

e certo, è censura. ma quanto mi deve toccare?

nel mio sogno, c’è la televisione?

no.

in questo mondo, sono obbligato a guardarla?

no, non ancora.

in questo mondo, ci perdo qualcosa a non guardarla?

forse si, ma è molto di più quello che guadagno a. è una scelta che ho già fatto. di cui sono pienamente soddisfatto.

e allora il problema non esiste. ho una scelta.

l’unico dovere che riconosco è quello di esercitare tutti miei muscoli della libertà. che nessuna domanda sia retorica.

me lo do io questo compito. perché è quello che mi fa stare bene.

 

e certo c’è tanta gente che questa scelta è come non la avesse. beh, quello non sono io. non più. me lo sono guadagnato e non ci voglio tornare.

e pure ci potrebbe essere qualcuno che sceglie di vederla, nel senso pieno della parola “scegliere”. quelli dubito che esistano davvero, e nel caso li capisco poco.

e tanti per cui è in qualche misura una scelta obbligata. un buco nero che ti allontana da tutte le cose che potresti fare invece di. e ce n’è.

c’è interdett, che ha una modalità di fruizione un poco meno passiva che può aiutare, perché aiuta a capire che se vuoi della roba che ti fa bene te la devi cercare, fare fatica, costruire relazioni. se lo vuoi capire, of course.
io ad esempio sono molto contento della mia cerchia di relazioni li dentro. mi danno tanto.

ci sono film. roba che scegli con intenzione, ti siedi a guardare per quelle due ore, e quando è finito non hai voglia di vedere un’altra puntata di qualsiasi cosa. magari hai voglia di pensarci su e discutere.
li la discriminante economica è li scarico o li pago.

ci sono libri. musica. strumenti musicali. fogli da riempire. disegnare scolpire. biciclette da registrare. cucinare. cose da imparare. crescere.

c’è che ti puoi sedere mezz’ora in una stanza con la luce bassa e ascoltare il rumore del tuo respiro, tanto per vedere l’effetto che fa.

ci sono amici. familiari. compagni di strada. incontri casuali e altri che sembra solo. lettere da scrivere e da leggere.

ci sono parchi strade piscine palestre
orti

ci sono corpi che vogliono sfiorarsi

c’è la cosa a cui non ho pensato ma tu si

detto da uno che con la televisione a suo tempo c’è andato sotto malamente: è molto meglio senza.

non è una questione di elevazione intellettuale, non è difficile da capire: ci sono scelte che abbiamo ancora la libertà di fare, senza grossi rischi. con quel tot di fatica, ma ben ripagata. solo non vengono messe in cima alla lista, e non le prendiamo in considerazione.

il problema è riconoscere che siamo titolari di scelte. in quanto esseri umani dotati di libero arbitrio. e prenderci la responsabilità di decidere e fare quello che ci fa stare meglio.
perché nessuna domanda è retorica.

i sogni. sono decisioni importanti

ancora sento gente che sognano di risolvere tutto rinchiudendo il nano pelato e il suo entourage. che la giustizia borghese come deus ex machina si svegli dal suo torpore ed impotenza e risolva magicamente il declino di quella cosa che ancora per comodità chiamiamo democrazia liberale. o magari che ci sia una qualche “rivoluzione”, chessò arancione o turchese, che la obblighi a.

può essere bello pensarlo, ma è tanto troppo facile.

cioè, per prima cosa costerebbe. perché sarebbe una guerra civile armata per cui hai bisogno di risorse. tante. e quindi sangue. tanto…. non mi piace. e poi gli euri per pagare armi e mercenari dove li prenderemmo? dal bottino di guerra?

perché poi di “cittadini” pronti a occupare i posti da eletto che si libererebbero ne troveresti a bizzeffe. non li puoi ingabbiare tutti. e se dovresti rinchiudere così tanti significa che hai sbagliato qualcosa.

l’unica strada che vedo è la strategia della lumaca: lasciare che lo stato si corroda dall’interno. dargli meno peso possibile. lavorare nei territori meno influenzati da. sperimentare. puntare ai piccoli risultati immediati. a stare bene, a far stare bene altre persone. a reimparare a relazionarci. a sbagliare. ballare, che se non si balla non è la mia rivoluzione.

perché io non so come sia esattamente il mondo in cui sogno di vivere.

so cosa non deve esserci, tipo il lavoro l’auto privata la famiglia i doveri. lo spreco, la scarsità artificiale, le fobie indotte l’obsolescenza programmata. la porta chiusa. la paura. le divisioni. le comunità che prevalgono sulle persone. non ci sarebbe il keynesismo demenziale di questi anni.
non ci sarebbe il nano pelato, e non ci sarebbero nemmeno le condizioni per farne uno. o un papa.

ci sarebbero persone che fanno la fatica che ci vuole per essere felici. biciclette, meglio se bianche. spazi pubblici e spazi per stare soli. ascolto. erba. tutti i tipi di. baci abbracci e carezze. musica per le strade. tante cose diverse. vento fresco. pipistrelli per mangiarsi le zanzare. sapori onesti. verdure di stagione. pioggia e fango e sole. e salite e discese.

non so, abbiamo bisogno di sogni un po migliori di così!

 

 

chiomonte suona come genova. ma il retrogusto è più saporito

è molto simile la sensazione soggettiva di forza e di vulnerabilità che entrambe lasciano. e la conseguente vertigine.

la vulnerabilità: in entrambi i casi sono stato toccato solo da lontano dal rischio di subire la violenza dello stato. sono stato contaminato solo marginalmente dalle sue armi chimiche. in parte grazie a scelte caute e compagni di viaggio attenti, in parte per puro caso. ma questo non mi ha impedito di subire l’effetto psicologico della prova di forza. “guarda che la tua tranquilla vita borghese, l’integrità fisica del corpo, la dignità, la possibilità di frequentare il circolo di persone che ti fanno sentire bene, la libertà di movimento ed i tuoi beni materiali, sono cose che potremmo anche toglierti.” e non sai mai bene quale sia la soglia che non devi superare perché ciò non succeda, perché c’è un grosso elemento di casualità nella scelta di chi viene colpito. vedi alla voce “illegalità di massa”. spiega tante cose di questo paese.

la forza: la resistenza alla TaV ha espresso una forza non indifferente sul terreno della dimostrazione di forza pre-militare. tanti tabù devono ancora essere infranti – da entrambe le parti – prima di poterlo considerare semplicemente uno scontro militare, ma ci si sta prendendo le misure.
da parte nostra, si vede che la forza che lo stato può permettersi di esercitare non è infinita. può essere combattuta. ma farlo non è gratis. bisogna metterci tempo, paura, feriti, salute, conseguenze legali. in fondo è una questione di budget: ad un certo punto si renderanno conto di aver speso troppo in ordine pubblico e rinunceranno. o meglio, si renderanno conto di aver fatto girare abbastanza l’economia a forza di paghe dei mercenari, benzina per gli elicotteri, lacrimogeni, marchette per i media di regime.
la differenza è che questa volta il gioco di dividere i buoni e i cattivi non sta funzionando. non tra i valligiani, non tra chi non sia dipendente dalla televisione e dalla stampa. “non c’erano gli infiltrati venuti da marte sui boschi di Ramats, c’eravamo noi. siamo tutti black block”. il rifiuto di soccombere alla violenza dello stato viene rivendicato apertamente. e non da piccoli gruppi che ne fanno il loro sport preferito. da una popolazione intera. il metodo genova non sta funzionando.

di pari passo il rifiuto, forse anche più importante, di dare peso alla rappresentazione di comodo fornita dai media di regime, la preferenza alla comunicazione orizzontale ed alla raccolta autogestita di notizie. e guarda caso proprio in questo periodo si intensificano gli attacchi alla libertà di espressione in rete, il tentativo di sussumere anche questo canale prima che troppa parte della popolazione si abitui a non mediare la propria informazione.

e ancora la consapevolezza diffusa che la rappresentanza elettorale ha perso ogni capacità di mediazione, è diventata pura cinghia di trasmissione dei progetti di una imprenditorialità mafiosa. che il PD è un’esperienza politica mai nata, e – parlandone provvisoriamente da vivo – va annoverato senza troppe discussioni tra le destre. che persino SEL, quando si mette in discussione il monopolio statale della forza, rientra nei ranghi “democratici”. che non c’è più un bertinotti da cui aspettarsi una sponda politica. o meglio, che non c’era mai stato. solo che stavolta non si perde tempo ed energie ad aspettarlo come interessato deus ex machina.

e ora il gioco è di nuovo lascia (lasciar insabbiare il progetto) o raddoppia (intensificare la militarlizzazione della valle).

cumulAzioni

magliette bandiere guanti
scarponi anfibi infradito
tamburi chitarre bassituba
marciare ballare sorridere
riconoscersi
correre veleni botte
scappare ritornare fare melina
respirare ammirare discutere domandare
riposare battere i paracarri lanciare colpire
guardare incitare maledire
acqua pane vino salame cioccolato tabacco

venire divisi cospirare essere dichiarati
contare i feriti i sodali i canestri di gas i compagni stipati in un treno i bicchieri di vino gli occhi irritati i nostri soldi spesi in benzina per elicotteri i diti medi

prendere atto di quanto sono lontani i diversi modi di raccontare la stessa cosa.
chiedersi come si possa convivere. se.

è ormai questa la liturgia civile da queste parti. la musica su cui ci tocca danzare

ma poi
senti raccontare una piccola vigna distrutta privata delle cure avvelenata
quanti anni ci sono voluti, quanti ci vorranno per
far crescere le piante maturare il vino assaggiare una clientela

e allora
uno si commuove Continue reading →

[trad] la natura del lavoro è di essere forzato

da indymedia Grenoble

Martedì 31 Maggio 2011, di Anonimo

Passeggiando per Grenoble nel weekend, si può constatare come le vetrine di diverse agenzie di lavoro temporaneo siano state generosamente ricoperte di manifesti contro il lavoro. In particolare, l’Agenzia Crit vicino al Liceo Mounier, la Randstad nel quartiere della Capouche (che notoriamente fanno i soldi col lavoro dei sans-papier), l’agenzia del Tridente nel quartiere Saint Bruno, l’agenzia Synergie in Cours Berriat e il polo d’impiego vicino a Alsace Lorraine. Quest’ultimo era già stato coperto di scritte come “non me ne faccio niente di un mondo in cui la garanzia di non morire di fame si paga col rischio di morire di noia”, “meglio disoccupata che controllora”, “morte al lavoro”, “bim bam bum”.

A seguire, una parte dei testi presenti sui manifesti.

Produci, consuma, crepa! Tre parole che riassumono perfettamente il male della nostra società, e che eppure siamo chiamati a glorificare. L’ideologia del lavoro ha denti lunghi, e ci chiama a gestire ogni giorno la nostra vita sulla base della miseria salariale. Vivere, avendo come massima speranza il poter rosicchiare qualche osso alla fine del mese, è CAPITALE! Dal primo mattino, da quando la sveglia ci scaccia dai nostri sogni, il denaro è la sola carota che ci spinge verso una nuova giornata di umiliazione. Bisognerebbe rendersi produttivi per il mondo degli affari, e continuare a gestire la nostra piccola vita sulla base dei bisogni che ci sono stati attribuiti. Questo ci permetterà di socializzare, ottenere un prestito per la nostra abitazione, occupare le nostre giornate, fare conversazione in famiglia. Cose che sembrerebbero impossibili  senza un lavoro. E non importa quanto questo lavoro sia abbruttente, umiliante, ripetitivo, inutile, ingiusto… basta che paghi, perché questa è la sua natura. Lavorare per lavorare, senza più percepire il senso del proprio lavoro, ormai è moneta corrente. Il valore-lavoro opprime i lavoratori/lavoratrici, e quelli e anche quelle che non lavorano, per quanto è diventato la norma a cui attenersi per essere riconosciuto in seno alla collettività. Da cui saranno banditi quelli e quelle che non danno il loro contributo, i “profittatori” e le “profittatrici”. E questo vale anche se, per quelli e quelli che hanno pescato le carte sbagliate (razziali, sessuali e altre…), che hanno chiuso loro le porte del meraviglioso mondo del lavoro, il gioco è chiuso in partenza. Sarebbe stupido glorificare un’epoca passata in cui il lavoro sarebbe stato – così dicono – più piacevole. Ma è giocoforza constatare che le ragioni che ci spingono ad metterci in attività hanno perduto di interesse in questa società post industriale. L’individuo non ha nemmeno più la possibilità di realizzarsi attraverso sue opere, gli si chiede solo di essere noleggiabile. Lavorare di più per consumare di più, consumare di più e quindi lavorare di più. È difficile uscire da questo cerchio. L’insostenibile è diventato tollerabile a forza di beni di consumo in abbondanza. Ci si rovina la vita a lavorare di più perché bisogna rovinarsi a consumare beni, divertimenti, cultura, vacanze, auto, oggetti multimediali e relazioni di ogni genere. E se per per disgrazia non ci conformiamo all’universo salariato, siamo minacciati dal pericolo di vivere per strada. O anche dal pericolo della galera, per quelli che avranno l’audacia di sfidare il mondo mercantile. Morire sul lavoro è ancora uno dei modi più frequenti di. Per quanto i lavori più estenuanti e degradanti siano spesso affidati ai lavoratori e alle lavoratrici stranieri, con o senza documenti, qui o in altri luoghi, sono molti quelli che rimangono ancora legati ai compiti più abbietti. Il progresso, che doveva portarci del tempo libero, ha invece permesso l’apertura di nuovi mercati, spingendo ogni volta un poco più lontano il limite tra quelli che vivono nell’agio e quelli che hanno le mani nella merda. E quando il lavoro non ti ammazza di fatica e di sudore, ammazza di noia quelli e quelle che fingono di entrare nello stampo aspettando che suoni la campanella. Perché, più che la sofferenza fisica, è l’essere morale che è maggiormente colpito. Quello che è spossessato ogni giorno dei suoi sogni, dei suoi desideri e delle sue scelte, e che morirà senza aver gustato il sapore della vita e della crescita.

Per tutte queste ragioni, noi saremo sempre contro il lavoro imposto dai dominanti, il lavoro abbruttente, il lavoro degli esclusi, il lavoro alienante, il lavoro di distruzione di se e degli altri, il lavoro produttivista, il lavoro gerarchizzato… e non smetteremo di lottare per una attività non di mercato, utile al “bene comune” e non al profitto di quelli che cercano soddisfazione a spese di questo stesso “bene comune”