il frutto amaro della battaglia sui crocefissi

Che ci fa il crocefisso nelle aule scolastiche? Lo si capisce chiedendosi come ci è arrivato: è stato messo lì, o meglio è stato reiterato l’atto di violenza della crocefissione, a seguito dell’azione di lobby della chiesa sullo stato italiano. Il suo scopo non è quindi di trasmettere agli studenti un messaggio spirituale, o men che meno di valori civili, ma semplicemente di rendere evidente il potere di una religione organizzata nella sfera civile. È quindi giusto battersi contro questo atto di bullismo istituzionale, e tutto il rispetto va alla famiglia Albertini-Lautsi che si è esposta in questa battaglia civile. Eppure, ci sono alcuni aspetti di come è stata impostata l’azione giudiziaria che meritano di essere discussi.

In primo luogo, è sempre utile rimarcare l’ovvio: questa è una di quelle battaglie in cui si cerca la giustizia nei tribunali, anche se è ben noto che in quei luoghi si può trovare al massimo la legge. Talvolta ne vale comunque la pena per fare dibattito, ovvero per sfruttare la risonanza mediatica del caso per far discutere la popolazione, per rendere oggetto del contendere un tema che altrimenti sarebbe scontato. Ma allora, il modo in cui viene impostato il dibattito è critico, forse anche più importante dell’esito della battaglia legale.

L’aspetto discutibile è che il ricorso della famiglia Albertini-Lautsi lamentava la violazione congiunta di due diritti: la libertà di religione dei figli minori, per i quali i genitori agivano come tutori, e la libertà di educare i figli secondo le proprie convinzioni, in cui i genitori erano parte offesa. Peccato però che questi due diritti siano in macroscopico conflitto tra loro, oltre che con le pretese di uno stato neanche tanto nascostamente confessionale.

Il diritto alla liberà di religione è tutelato dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (Articolo 9, “Libertà di pensiero, di coscienza e di religione”).

Il diritto di educare i figli secondo le proprie convinzioni è invece tutelato dall’articolo 2 del primo protocollo addizionale della suddetta convenzione, datato 20 Marzo 1952. E di cosa parla questo articolo? Al di la delle sfumature, per cui si dice “provvedere all’educazione sencondo convinzioni religiose e filosofiche” al posto di un più comprensibile “indottrinare”, o “inculcare”, indica l’infondere ai bambini convinzioni e principi non soggetti a discussione, che siano amici immaginari con poteri sovrannaturali, norme etiche e sociali che a tali amici immaginari vengono attribuite, ma anche atteggiamenti acriticamente deferenti verso l’autorità statale, o di patriottismo più o meno becero.

Un siffatto “diritto” si basa su una serie di precondizioni che sono tutt’altro che ovvie e condivisibili:

  1. che sia possibile indottrinare i bambini
  2. che sia lecito indottrinare i bambini
  3. che lo stato sia titolare della potestà su cosa e come viene inculcato, e quindi la possa attribuire ai genitori
  4. che i genitori debbano instaurare un rapporto di potere sui propri figli, invece che stimolare la libera crescita della loro personalità

e ciascuna di queste precondizioni è una macroscopica lesione alla autodeterminazione della persona, che va molto oltre la semplice “libertà di/dalla religione”.

Ma allora quando un genitore, per tutelare i figli da un crocefisso, chiede che lo stato rispetti della patria potestà sulla loro identità, ovvero il potere di fare scelte religiose al posto loro, lo può fare solo riconoscendo implicitamente che lo stato è in primo luogo titolare di questo potere. Ovvero si sta alleando con lo stato e con la chiesa nel sottrarre ai propri figli temporaneamente minorenni la loro autodeterminazione. Viene quindi da chiedersi che senso abbia affermare il diritto di una persona a non vedersi imposto un simbolo religioso dallo stato in nome del diritto di vederselo imposto dalla famiglia.

Il frutto amaro di questa battaglia legale è stato un dibattito pubblico la cui premessa – e non l’oggetto del contendere – era che le convinzioni religiose dei minori siano oggetto di mercanteggiamento tra stato, chiesa e genitori, ovvero l’esatto contrario della autodeterminazione dell’individuo.

Con il comodo senno di poi di chi si è letto qualche documento dopo aver visto – con poca sorpresa – gli esiti della battaglia giudiziaria, viene da chiedersi se non sarebbe stato meglio rivendicare solamente la difesa della libertà di religione dei figli, anche se questo avesse significato sottrarre argomenti al ricorso.

E viene anche da suggerire – a chi prova gusto a chiedere gentilmente allo stato di comportarsi contro i suoi interessi – di intraprendere un’altra campagna nei corridori del potere, per evidenziare – e magari tentare di regolare – il conflitto tra la libertà di/dalla religione degli individui, a prescindere dalla loro età, e la libertà di chiunque, stato famiglia o chiesa che sia, di “educare dei minorenni secondo le proprie convinzioni”.