la resistenza è stata

e ora non è più, facciamocene una ragione.

La resistenza è stata un processo che ha lasciato degli effetti. Il processo era splendido e terribile, come tutte le fasi rivoluzionarie. Un momento in cui si poteva anche pronunciare la parola “patria” senza ridersi addosso. Una fase in cui si lottava, si era costretti a, per espandere le proprie libertà.

Gli effetti è più complicato: prendiamo ad esempio quella che viene venduta come l’eredità più preziosa, una sudata carta chiamata “costituzione”.

Eppure sappiamo bene che, una volta esaurita la fase “rivoluzionaria” della resistenza, altre forze sono subito entrate in azione per svuotare di qualsiasi contenuto quella cosa chiamata “democrazia”. E sempre più sono state lasciate fare. Tanto che, se mai c’è stata in italia una cosa chiamata democrazia che valesse la pena di difendere, oggi quei tempi sono passati da molto.

E allora la costituzione era una bella promessa, che come era prevedibile non è poi stata mantenuta. Come di norma accade alle promesse fatte da chi non ha interesse ne coercizione a mantenerle. Ed questo dovrebbe offendere la memoria di chi ha lottato per conquistarla. Non certo il guardare con occhio disincantato la decomposizione che intacca la facciata democratica di questo paese. Non certo il chiamare le cose col proprio nome.

E uno si chiede che senso abbia continuare ad aggrapparsi ad una etichetta di democrazia che manco finge di nascondere una ben diversa gestione del potere. E prova frustrazione perché difendere conquiste vecchie di sessant’anni, o meglio rallentare la loro erosione, non è neanche lontanamente confrontabile con il lottare e conquistarsi qualcosa nel presente. Essere parte di un processo rispetto al tentare di conservarne i frutti.

E no, non si può tenere in cascina una conquista all’infinito. Va utilizzata finché vale qualcosa. E poi tocca dirselo, che ormai vale così poco, e forse è ora di essere di nuovo parte di un processo.

edonismo cinematico

da circa un mese sono affetto da sindrome della ruota fissa. la si può contrarre provando una bicicletta priva si scatto libero, ovvero in cui i pedali girano sempre solidali alla ruota posteriore. le categorie a rischio sono ciclisti da pista, fighetti urbani alternativi, cicloattivisti radicali, ciclomeccanici, edonisti cinematici, corrieri in bicicletta e altre creature simili. il contagio porta spesso la vittima ad appartenere ad altre categorie a rischio.

mi sono infettando dopo aver convertito la mia vecchia bici “da strada”, montando una nuova ruota già fatta e togliendo alcuni pezzi che erano diventati inutili.

dopo un breve e rischioso periodo di adattamento, ti sembra di aver sempre pedalato in questo modo.

rispetto a prima, la differenza è non tanto quando pedali ma quando non lo fai: i pedali vengono trascinati dalla tua stessa inerzia e ti spingono i piedi in alto da dietro. all’inizio è spiazzante, ma poi capisci che, opponendoti gradualmente a questa spinta, puoi frenare. usi la stessa interfaccia per aggiungere e per togliere energia cinetica al tuo mezzo. il freno, questa inelegante dispersione di calore e materiali di consumo, diventa subito un oggetto il cui uso è disdicevole, da riservare alle emergenze. anzi, ogni volta che lo devi usare ti rendi conto di aver sbagliato qualcosa.

infatti cambia anche lo stile di guida: cerchi di mantenere una velocità più uniforme possibile. nel traffico urbano, questo significa prestare attenzione totale a quanto ti succede intorno, per essere in grado di anticipare la posizione di tutti i veicoli con cui dovrai condividere lo spazio tra 10, 50, 200 metri. e questo ti porta a percepire di più te stesso. qui stà il vero valore della ruota fissa.

e questo porta PIACERE. una indescrivibile sensazione di naturalezza nello spostarti velocemente ma senza aggressività. contatto con gli altri esseri umani, soprattutto i meno fortunati che sono rinchiusi in una scatola su quattro ruote. che sono nemici, perché nella loro depauperazione percettiva e motoria guidano in modo pericoloso e soprattutto irrispettoso (senza contare le conseguenze ambientali). ma sono anche esseri umani come te, solo meno fortunati. e questo lo capisci soprattutto quando come me sei ancora costretto ad usare l’auto di quando in quando. da qui il passo verso il proselitismo più o meno aggressivo è estremamente breve.

Cambia anche che riconosco e riesco a dirmi il non piacere di essere in auto.

Questa scatola infarcita di pezzi inutili, che determina una cinematica sgradevole. Una totale disconnessione tra interfaccia e le forze in gioco. Che poi comunque il corpo subisce. Un perfetto strumento di alienazione e disedonismo. Un oggetto che ridefinisce i tuoi confini, rendendoli rigidi, respingenti e costrittivi. Una corazza, quando è così bello essere tutta pelle.

l’esperienza del bello. un ottimo modo per rendersi conto di quanto sia brutto il brutto.

analisi grammaticale. non è inutile quanto sembra

Quando parlano di te come se non ci fossi, che sia per distrazione, mancanza di rispetto o voluta scortesia, senti parlare di te in terza persona. È brutto.

Perché ti fa vedere quanto sia arbitrario il legame tra come (ti) percepisci e come vieni raccontato dagli altri. Quello che percepisci di te, quello di cui parlano. Sono due oggetti diversi, non c’è verso di conciliarli.

Quando parlano di te con te, riesci ancora a ricucire i due piani. E già è una fatica. Devi saper usare le parole. Tutti devono saper ascoltare. Non è roba comune.

Quando parlano di te in tua assenza, è normale. Ma anche quello te lo racconti. Te lo fai raccontare. Te lo immagini. Ne leggi anche a sproposito gli effetti visibili. E gli dai un senso.

Ma quando senti che parlano di te senza includerti nella conversazione vieni violentemente esposto alla distanza inconciliabile tra i due piani, e devi scegliere: sei quello che senti, o sei quello di cui parlano?

E se poi succede che parlano di te in terza persona quando sei dipendente fisicamente ed emotivamente, tipo un bambino, non hai tanta scelta: tu sei quello di cui parlano tra loro. E le tue emozioni, i desideri, esistono solo nella misura in cui ne parlano. Ma tu non vuoi che ne parlino, perché ormai hai capito benissimo che se lo fanno faranno un macello. Hai perso ogni fiducia emotiva.

E poi sarai sempre quello di cui qualcun’altro parla.

E poi sarai sempre uno che non ha il coraggio delle sue emozioni.

cose che non succedono aspettando il solito treno

Stazione. Tutti mi guardano chiedendo: cosa ci fai
senza il tuo amore in tasca?

Eh, sapete, devo averlo lasciato da qualche parte.

Ma noi, ci eravamo abituati a vederti aspettare il treno con l’amore.
Faceva un bel suono, il tuo amore.
Tintinnava, vibrava. Rallegrava le giornate.

anche a me, ma sapete. Ma era strano quell’amore. Era difficile, faticoso.
Faceva tutto quel rumore perché tentavo di tenermelo tutto per me.
Perché sennò si sarebbe rotto. C’era scritto nelle istruzioni.
Allora io lo tenevo in gabbia, e lo alimentavo di bocconi prelibati, di sensazioni colorate.
E a lui piacevano, cresceva forte. E forte picchiava contro la gabbia.

E non si faceva male?

Un pò si, Ma era sveglio.
Presto ha capito
che la gabbia era abbastanza forte per lui.
E allora aveva imparato ad attaccarla
senza farsi male.

E io intanto, stavo pensando che forse ormai era abbastanza forte.
per uscire nel mondo.

Ma lui ormai. aveva già dedicato tutte le sue forze
a combattere contro la gabbia, e aveva perso.
era deluso, sfiduciato. E stanco.

Pensava che non ce l’avrebbe fatta.
E ha rinunciato.

È per questo, cari amici, che oggi prendo il
treno senza il mio amore sotto l’ascella.

il frutto amaro della battaglia sui crocefissi

Che ci fa il crocefisso nelle aule scolastiche? Lo si capisce chiedendosi come ci è arrivato: è stato messo lì, o meglio è stato reiterato l’atto di violenza della crocefissione, a seguito dell’azione di lobby della chiesa sullo stato italiano. Il suo scopo non è quindi di trasmettere agli studenti un messaggio spirituale, o men che meno di valori civili, ma semplicemente di rendere evidente il potere di una religione organizzata nella sfera civile. È quindi giusto battersi contro questo atto di bullismo istituzionale, e tutto il rispetto va alla famiglia Albertini-Lautsi che si è esposta in questa battaglia civile. Eppure, ci sono alcuni aspetti di come è stata impostata l’azione giudiziaria che meritano di essere discussi.

In primo luogo, è sempre utile rimarcare l’ovvio: questa è una di quelle battaglie in cui si cerca la giustizia nei tribunali, anche se è ben noto che in quei luoghi si può trovare al massimo la legge. Talvolta ne vale comunque la pena per fare dibattito, ovvero per sfruttare la risonanza mediatica del caso per far discutere la popolazione, per rendere oggetto del contendere un tema che altrimenti sarebbe scontato. Ma allora, il modo in cui viene impostato il dibattito è critico, forse anche più importante dell’esito della battaglia legale.

L’aspetto discutibile è che il ricorso della famiglia Albertini-Lautsi lamentava la violazione congiunta di due diritti: la libertà di religione dei figli minori, per i quali i genitori agivano come tutori, e la libertà di educare i figli secondo le proprie convinzioni, in cui i genitori erano parte offesa. Peccato però che questi due diritti siano in macroscopico conflitto tra loro, oltre che con le pretese di uno stato neanche tanto nascostamente confessionale.

Il diritto alla liberà di religione è tutelato dalla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (Articolo 9, “Libertà di pensiero, di coscienza e di religione”).

Il diritto di educare i figli secondo le proprie convinzioni è invece tutelato dall’articolo 2 del primo protocollo addizionale della suddetta convenzione, datato 20 Marzo 1952. E di cosa parla questo articolo? Al di la delle sfumature, per cui si dice “provvedere all’educazione sencondo convinzioni religiose e filosofiche” al posto di un più comprensibile “indottrinare”, o “inculcare”, indica l’infondere ai bambini convinzioni e principi non soggetti a discussione, che siano amici immaginari con poteri sovrannaturali, norme etiche e sociali che a tali amici immaginari vengono attribuite, ma anche atteggiamenti acriticamente deferenti verso l’autorità statale, o di patriottismo più o meno becero.

Un siffatto “diritto” si basa su una serie di precondizioni che sono tutt’altro che ovvie e condivisibili:

  1. che sia possibile indottrinare i bambini
  2. che sia lecito indottrinare i bambini
  3. che lo stato sia titolare della potestà su cosa e come viene inculcato, e quindi la possa attribuire ai genitori
  4. che i genitori debbano instaurare un rapporto di potere sui propri figli, invece che stimolare la libera crescita della loro personalità

e ciascuna di queste precondizioni è una macroscopica lesione alla autodeterminazione della persona, che va molto oltre la semplice “libertà di/dalla religione”.

Ma allora quando un genitore, per tutelare i figli da un crocefisso, chiede che lo stato rispetti della patria potestà sulla loro identità, ovvero il potere di fare scelte religiose al posto loro, lo può fare solo riconoscendo implicitamente che lo stato è in primo luogo titolare di questo potere. Ovvero si sta alleando con lo stato e con la chiesa nel sottrarre ai propri figli temporaneamente minorenni la loro autodeterminazione. Viene quindi da chiedersi che senso abbia affermare il diritto di una persona a non vedersi imposto un simbolo religioso dallo stato in nome del diritto di vederselo imposto dalla famiglia.

Il frutto amaro di questa battaglia legale è stato un dibattito pubblico la cui premessa – e non l’oggetto del contendere – era che le convinzioni religiose dei minori siano oggetto di mercanteggiamento tra stato, chiesa e genitori, ovvero l’esatto contrario della autodeterminazione dell’individuo.

Con il comodo senno di poi di chi si è letto qualche documento dopo aver visto – con poca sorpresa – gli esiti della battaglia giudiziaria, viene da chiedersi se non sarebbe stato meglio rivendicare solamente la difesa della libertà di religione dei figli, anche se questo avesse significato sottrarre argomenti al ricorso.

E viene anche da suggerire – a chi prova gusto a chiedere gentilmente allo stato di comportarsi contro i suoi interessi – di intraprendere un’altra campagna nei corridori del potere, per evidenziare – e magari tentare di regolare – il conflitto tra la libertà di/dalla religione degli individui, a prescindere dalla loro età, e la libertà di chiunque, stato famiglia o chiesa che sia, di “educare dei minorenni secondo le proprie convinzioni”.

incul(c)are

“Educare i figli liberamente vuol dire di non esser costretto a mandarli a scuola in una scuola di stato dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli

basta questo a dimostrare di che è fatto il partito della libertà. di che è fatta la famiglia italiana (e quindi cattolica) a cui fa appello il clown in declino: di relazioni di dominio. una rete che rende tutti prigionieri e nessuno felice.

e non pensate di salvarvi se siete dalla parte del dominatore. perché dominare ti rende schiavo quanto essere dominato. perché il potere che usi per dominare ti viene fornito da qualcun altro più grosso di te. e non certo aggratis. perché diventi dipendente dal potere che hai, e come tutte le tossicodipendenze ti rende schiavo. perché ti trovi a gestire una persona che – consciamente o meno – userà tutti i mezzi a sua disposizione per liberarsi del domino, e se non ci riesce del dominante. inclusa l’intera casistica delle patologie relazionali, dalla colite al bullismo.

perché i figli a cui rovini la vita inculcando i tuoi principi (per quanto fighi siano i suddetti principi) saranno condannate a fartela pagare per il resto dei tuoi giorni. a odiarsi per avertelo lasciato fare. a odiarsi per aver odiato i propri genitori. a propagare le stesse dinamiche alle persone su cui avranno potere. e magari a odiarsi e a odiarti pure per questo.

per smettere è sempre troppo tardi, ma dopo sarà ancora più tardi.

negri buoni

in tivù è passata Ilaria Cucchi a presentare un libro. in cui racconta di suo fratello Stefano, morto una volta di forza pubblica e un’altra volta di difesa dell’onorabilità dello stato. e questa è li a raccontarlo alla nazione in prima serata di domenica.

strano: di solito la tivù itagliana come mezzo di informazione è inutile. eppure ogni tanto qualcosa filtra. storie di persone che hanno subito in dei torti dallo stato. però non direttamente. magari attraverso un parente. come quando hai una figlia che è morta, e come premio di consolazione devi fare vent’anni di tribunali per avere indietro un cadavere da seppellire, perché c’è qualche troglodita esaltato che insiste che se respira è viva.

il non previsto incuriosisce, e uno si chiede perché ci viene graziosamente concesso di sentirli parlare.

una interessante coincidenza è che questi personaggi, che denunciano come lo “stato di diritto” non mantenga le sue promesse in modi gravissimi e senza alcun ritegno, cominciano da protocollo il loro intervento assicurando la loro più assoluta fiducia nel suddetto stato.

anzi,  la parola è “fede”, perché ormai nello stato ci si può credere solo per fede. come a gesù babbo natale e la fatina dei denti.

questi personaggi sono assolutamente rispettabili, la loro battaglia è giusta e ammirevole. ma quando arrivano in tivù a raccontare di come lo stato li ha aggrediti per capriccio, sono un’altra cosa. impersonificano un modo di reagire alle ingiustizie dello stato: lottare dall’interno, chiedendo fermamente che il sovrano si comporti meglio. il che è una scelta individuale assolutamente legittima. la mistificazione è far pensare che sia l’unica.

e no, non è che io pensi che dello stato possiamo disfarcene domani. ci sono dentro anch’io.

però le cose preferisco chiamarle col loro nome: lo stato è una cosa che mi viene imposta. il contratto sociale nessuno mi ha mai chiesto se volevo firmarlo. oppure no.

e lo stesso contratto viene macroscopicamente e sistematicamente infranto proprio in nome dello stato stesso.

perché il patto sociale reale è un altro. il potere disponibile tramite il voto è sempre stato solo una piccola fetta. e stà diminuendo. i diritti non te li regala nessuno, non sono per niente garantiti. se li vuoi te li devi guadagnare, sono il risultato di una negoziazione in cui devi mettere in campo la forza, in un modo o nell’altro.

come quando riempi le piazze. come quando saboti la produzione. come quando crei socialità. come quando saboti il consumo.

o come quando fai le guerricciole tutte dentro lo stato per costringerlo ad applicare – e magari solo a te – le sue stesse leggi.

o come quando scendi a patti con lo spettacolo, come le tante vittime dell’ingiustizia esemplare.

gli stessi che, visti dall’altro lato, sono i negri buoni che dimostrano che lo stato alla fine mette a posto tutto. se ti piace crederlo. e muoverti assumendo che si applichino quelle leggi che sono scritte. col rischio di diventare il prossimo.

nella piccola misura in cui investo nel cambiare lo stato di cose esistente, è perché ne ho un vantaggio. spesso più nel processo che nel risultato, come tutti

come metodo cerco di usare the right tool for the job. e lo stato non lo è. il più delle volte è un ostacolo.

no justice no peace (e per ora sono parole)

Non stupisce che le contestazioni pubbliche siano un terribile spauracchio per gli eletti. Hanno paura la fisicità della piazza, dell’autodeterminazione di chi non hanno comprato o comunque sotto ricatto. E non si fermano nemmeno davanti al paradosso di chiamare antidemocratico quello che sarebbe un semplice esercizio dei diritti di espressione che proprio la democrazia dovrebbe garantire.

È per loro intollerabile l’essere confrontati con l’irrealtà del proprio discorso politico, ad esempio con l’elementare osservazione che un sindacato che lavora per i padroni non è gradito ai lavoratori.

E allora ad un pezzo consistente della popolazione si minano le basi della sopravvivenza economica, si nega il diritto di rappresentanza, l’accesso all’informazione e ai media, la possibilità stessa di esistere, e questo viene chiamato “processo democratico”. E questi inspiegabilmente talvolta reagiscono.

giochi apparentemente innocenti

Mi sono trovato per caso a far giocare due bambine di questo secolo, figlie di amici.

Tra i vari giochi del loro repertorio, probabilmente insegnato loro da qualche adulto, c’è quello delle dame e cavalieri: “tu ti allontani, noi decidiamo che una di noi è la tua dama, e tu devi scoprire qual’è. Quando pensi di averla scoperta, le dai un bacio. Se hai scelto giusto anche lei ti bacia, altrimenti prendi uno schiaffo”.

Lo scopo del gioco per il cavaliere è trovare la sua dama con meno tentativi possibile, per le dame è fargli prendere più schiaffi possibile.

È un simpatico gioco di comunicazione non verbale, direte voi, ed è vero: il cavaliere deve riuscire a leggere i segnali per individuare la sua dama, far pratica con l’espressione dei propri sentimenti, e con la possibilità di essere accettato o rifiutato, le dame giocano con le espressioni per rendere difficile il suo compito.

Ma qual’è la modalità di relazione tra i sessi a cui questo innocente gioco addestra?

  • le “dame” sono addestrate a nascondere i propri veri sentimenti e gusti (altrimenti il cavaliere scoprirebbe facilmente chi è la sua dama)
  • la scelta di accoppiarsi non è una libera scelta di due persone che esprimono apertamente i propri interessi, ma la scelta di un gruppo, o possibilmente di un adulto che guida il gioco, ovvero una figura di potere. quindi quello che dovrebbe essere l’incontro dei liberi desideri di due persone diventa un fatto imposto dall’esterno
  • si da per scontato che gli accoppiamenti siano tra persone di sesso opposto, quando è ben noto che questo non vale per tutti

Per chi ha figli, e prende sul serio quella cosa chiamata “responsabilità educativa”, forse sarebbe meglio fare attenzione ai giochi con cui imparano a vivere.

una stereotipa contraddizione tra sentimento e ragione

odio quando il popolo si fa folla festante accumunata dall’unico sentore
di ascella dentro maglietta sintetica a colori nazionali. o di club.
di troppa birra bevuta o rovesciata addosso
cioè, i mondiali, i campionati le coppe e le coppette.

odio la nazione e tutto ciò che ne deriva, i clacson le bandiere le sciarpe i gagliardetti, il calcio da guardare, la tivù, il geniale cortocircuito "forzaitalia", quelli di sinistra che tifano facendo gli intellettuali o i ggiovani, quelli di destra (quasi sempre), i caroselli in auto con i culi (molli) a cavallo delle portiere, occasioni di piccoli regolamenti di conti etnici, le piccole guerre tra poveri a colpi di calciatori strapagati, la fede in una squadra, che la odio come qualsiasi fede, il substrato su cui viene coltivati i neofascisti… insomma, un pò tutto stò baraccone lo odio. la massificazione dell’individuo, la perdita di stile e di ritegno, la distrazione collettiva

uno dei peggiori modi di rubare tempo al proprio datore di lavoro, anche

eppure, quando poi sono tutti fuori a festeggiare ubriacare abbracciarsi, magari anche tra gente che per un motivo o per l’altro di solito di guardano in cagnesco, la sensazione di pancia non è mica male. che poi delle volte ci scappa anche qualche allegro vandalismo non del tutto inutile.

bah, sono strani questi umani!