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andarsene?

ormai è da un pò che l’idea mi frulla: andarsene dall’itaglia.

crisi economica, democrazia a rischio, anzi ormai fottuta da tempo, movimenti sociali in ribasso e chiesa in rialzo. una rete di infrastrutture basata sull’automobile privata, un nodo che forse verrà al pettine e forse no. l’economia di questo paese che stava in piedi sulla bolla edilizia. sgonfiata quella, si affloscia tutto. sistema educativo svenduto. media permanentemente fottuti. e soprattutto, poco e debole quello che si muove dal basso.

niente di nuovo, mi dirai, solo un aggravarsi di fattori già noti.

vero. quello che è cambiato è un diffuso senso di riuncia: tanti che non hanno più volta di lottare se non per se stessi, per la sopravvivenza o per l’autoaffermazione individuale nello stato di cose dato, ma non più per nulla di collettivo o ideale. è finalmente arrivata fino a me "la fine delle grandi narrazioni collettive". anch’io sono diventato così: mi preoccupo prima del mio benessere, perché dovrei fare altrimenti?

peggio che nel resto dell’occidente? parrebbe proprio di si, ma in realtà che cazzo ne so davvero io dell’occidente? 

l’avere frequentato – più sporadicamente che altro – ambienti diversi, i collettivi, i centri sociali, genova, i forum sociali, la critical mass, il software libero, qualche esperienza di fricchettonismo comunitario-ecologico e chissà cos’altro, tutto ciò mi lascia solo dei gusti un pò strani, e tanto disincanto con cui guardare lo stato di cose presente. non un anelito a trasformarlo.

tutto comincia quando smetto di riconoscermi nel mio paese e nei suoi abitanti tipo. quando andando all’estero sono contento se non mi riconoscono per italiano. come quella volta che mi sono intrufolato in una visita guidata in francese, per evitare di mischiarmi con una comitiva di itagliani caciaroni. era nel cuore della cecoslovacchia, 1992. quando i mondiali di calcio diventano una occasione di lutto e introversione, ovvero almeno da itaglianovanta. come quella volta che un ragazzo è entrato in un ostello farneticando al alta voce in italiano, esaltato per aver fatto un paio di km a piedi, e io ho fatto finta di non capire cosa dicesse. era portogallo, forse 2004.

questa consapevolezza raggiunge il culmine quando penso – non troppo scherzosamente – che il voto come giurato, estratto a sorte, al poetry slam della scighera, vale più del voto alle elezoni itagliane. quindi perché non timbrare il certificato elettorale ai giurati dello slam? (e non escludo che lo facciano davvero). in bovisa, 2008. e da li non si muove.

e allora, se questo paese di merda è una palla al piede sotto ogni punto di vista, perché restare? penso che restando qui potrei oppormi al declino? no, anche perché lo pagherei troppo e non combinerei nulla.

e non molto che mi tenga qui, più che altro la paura di rischiare, di trovarmi in difficoltà. soprattutto, di diventare ancora più solitario di  quanto già non sia. di perdere quel piccolo giro di conoscenze e amicizie che bazzico.

e poi devo ancora abituarmi a guardarmi in faccia come individualista.

e soprattutto devo convincermi che portando in giro tutte le mie paturnie di itagliano in qualche altro pezzo di mondo un poco più civile non sarà esattamente la stessa cosa.

perché altrimenti tanto vale restare.

il lavoro, quella cosa per cui ti pagano

il lavoro, attività retribuita.
una relazione commerciale, per cui tu fai delle cose che non faresti spontaneamente, rispondendo alle esigenze ed agli ordini di qualcun’altro, e in cambio ottieni dei soldi.
questa è l’essenza della relazione lavorativa.
(
da non trascurare il fatto che i soldi difficilmente li usi per soddisfare i tuoi bisogni. è più probabile che li usi per soddisfare il bisogno di qualcuno di venderti qualcosa).

poi è naturale che chi ha qualche potere contrattuale, e quindi più di una possibilità lavorativa tra cui scegliere, faccia questa scelta prendendo in considerazione le varie possibilità e valutando diversi aspetti, tra cui anche la soddisfazione che si prova per un lavoro ben fatto, o l’impressione di fare qualcosa di utile.

è vero che queste cose esistono, e che fanno bene.
è giusto dargli un peso nella scelta del lavoro, ma questo non deve far dimenticare la sostanza della relazione lavorativa:
soldi in cambio delle tue energie, della tua libertà di azione e di pensiero.

e per questo non ci sono scappatoie. dal cottimista all’artista che ha "piena libertà", dal precario di callcenter al barone universitario, dall’imbonitore di fiera che vende pentole intortando la gente all’artista di successo che può imporre le sue condizioni alle case discografiche e per questo dice di essere indipendente, tutti quelli che dipendono dal proprio lavoro per la sopravvivenza devono adeguare la propria attività lavorativa ad esigenze che non sono le proprie.

e che non sono nemmeno l’interesse generale:
tutti quelli che lavorano si adeguano ad esigenze di profitto, che siano quelle del padrone o che si sia "il padrone di se stesso", ovvero che a sfruttarci sia qualcun’altro o che ci sfruttiamo da soli.

beh, un errore comune è confondere gli effetti collaterali positivi del lavoro, la umana soddisfazione per le cose fatte, che sono comunque effetti collaterali di una relazione servile, con la relazione stessa.

se lavori per campare sei uno schiavo.
io lavoro per campare, quindi sono uno schiavo.

(non dei più sfigati, forse, ma pur sempre uno schiavo)

un libro illuminante su questo è nowtopia che, dopo aver raccontato molto estesamente questo concetto, illustra una serie di resistenze a questa condizione, basate sul fare nella propria vita due lavori: uno per il sostentamento materiale, vissuto come tale senza sovrastrutture ideologiche, e l’altro per fare quello che si desidera.
tipicamente, si tratta di attività che hanno una aspetto sociale, nella condivisione delle conoscenze se non nella pratica, una sperimentazione pratica e radicale con le tecnologie, una solida consapevolezza del (mal)funzionamento della "civiltà occidentale" alle spalle.

PS: se come me sei un privilegiato che ha qualche possibilità di scelta, e pensi che questo discorso non ti riguarda, ricordati che la tua condizione di privilegio è frutto di una combinazione di:

  1. opportunità che hai avuto grazie al potere economico, alla
    cultura e all’ambiente umano della tua famiglia e delle persone che ti
    hanno supportato nella crescita (la crescita come unità di produzione, che non è granché correlata con la crescita come persona)
  2. qualità umane "innate",ovvero riconducibili alla ricombinazione
    casuale dei geni, e delle persone che portavano a spasso questi geni
  3. culo (o se vuoi caso, fortuna, fato, statistica…)
  4. quanto sei stato e sei disposto a sacrificare per ottenere vantaggi materiali (dignità, etica, identità, stile, integrità psicofisica, libertà di usare il tempo libero con le persone e le attività che preferisci, libertà di fare sesso con le persone che preferisci, onestà,…)
  5. esserti formato delle competenze, ad esempio studiando o lavorando,
    ma comunque a spese di una giovinezza che avrebbe potuto essere più
    divertente.

tutti questi fattori tranne gli utlimi due sono sostanzialmente casuali.
l’ultimo significa che hai iniziato presto a fare dei "buoni investimenti"
pensando non alle tue esigenze ma a quelle di potenziali datori di
lavoro.
ovvero, quando hai preso il primo stipendio stavi già lavorando da anni in una relazione servile.
il penultimo significa che la tua giornata lavorativa, nel senso di subordinazione ad una relazione servile, assomiglia più a 24 ore che a 8 ore.

quindi,
considera che con una diversa ricombinazione di fattori casuali avresti
potuto avere molte meno scelte di quante ne hai ora, percui non puoi basare la tua analisi della relazione lavorativa sulla tua condizione individuale.
per capire bene la tua condizione di schiavo del salario, prova a pensare che non ti ci vorrebbe molto ad essere stato – o a diventare – uno che per ore chiama la gente per proporgli delle colossali minchiate, e si prende dei comprensibili vaffanculi, un minatore di uranio in congo, uno scaricatore di pesce o chissà che altro.

è una esperienza concettuale interessante.

kudos (benaltrismo)

mentre io mi trastullo con problemi tutto sommato "di secondo ordine", quelli di cui posso occuparmi visto che (di solito) godo di ciò che l’occidente passa per "libertà personale", "diritti civili", e financo una relativa tranquillità economica, leggendo per caso le lettere del manifesto mi rendo conto che ci sono benaltre relazioni abusive da cui alcuni hanno bisogno di liberarsi.

con l’aggravante che di solito le sette che associano le persone contro la loro volontà sono sottoposte al codice penale, mentre questa stranamente no. 

oltre alla lettera al manifesto che riporto, ho trovato un paio di link riferiti a questo personaggio piacevolmente anomalo:

http://www.cdbchieri.it/rassegna_stampa_2004/vocatio.htm

Vita esemplare di
Pio V il Massacratore
elevato agli onori degli altari da Wojtyla 

 

http://ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/08-Giugno-2008/art47.html

Scritto&Parlato
Bambini prigionieri in seminario
Valentino Parlato

Caro Valentino Parlato,
ho
letto sul manifesto del primo giugno la lettera delle mamme in galera
della sezione di alta sicurezza di Rebibbia che soffrono della
disparità di trattamento con altre detenute privilegiate
nell’incontrare i loro bambini in carcere. E’ una cosa vergognosa.
Anch’io, recluso da piccolo all’età di dieci anni in seminario, ho
sofferto per lunghi anni l’identica sofferenza del distacco innaturale
dalla mia famiglia. Tuttora migliaia di minori, femmine e maschi, in
Italia e in tutto il mondo, sono privati della presenza dei loro
genitori perché reclusi in noviziati e seminari per essere avviati a
vita religiosa o sacerdotale. A Salerno, in Campania, papa Wojtyla ha
costruito un seminario ecclesiastico interregionale per il sud-Italia
dove si continuano a reclutare dalle povere famiglie dei disoccupati
migliaia di minori per essere avviati imperiosamente a una carriera di
privilegio e di sicurezza finanziaria. Lo sradicamento dalla loro
famiglia naturale in così giovane età è controproducente al loro
sviluppo mentale con turbe successive nella loro vita adulta. Di questi
seminari cattolici per minori è piena tutta l’Italia, l’Europa, tutto
il mondo orientale, le due Americhe, ma soprattutto l’Africa, l’Asia e
Cuba.
La Carta europea dei diritti del fanciullo proponeva al
Parlamento europeo di Bruxelles, negli anni ottanta, di riconoscere ai
figli minori il diritto naturale umano di poter crescere fino alla
maggiore età nell’alveo familiare dei loro genitori e dei loro
congiunti com’è naturale che sia. L’ostruzione dei deputati cattolici
europei ha impedito la promulgazione di questa legge, permettendo così
alle gerarchie della chiesa cattolica di perpetuare indisturbata il
barbaro abuso del consiglio tridentino del 1500 di sradicare persone
minori dalla loro famiglia naturale e di rinchiuderle per lunghi anni
in seminari-prigioni dove non possono avvicinare nemmeno la loro mamma,
se non dopo lunghi giorni di attesa, per poco tempo, in tristi stanzoni
denominati «parlatori».
Per questo sono solidale con le mamme di
Rebibbia e di tutte le carceri del mondo che non possono avvicinare
soddisfacentemente i loro piccoli bambini.
Antonio de Angelis
(prete sposato) Sanremo

Caro
Antonio, la tua lettera mi ha molto colpito, così che prima di
risponderti ti ho telefonato per avere una conferma della lettera. Tu
sei stato molto gentile e mi hai anche detto la tua età matura. C’è,
certamente, la separazione tra figli e genitori, quando mamma o papà
finiscono in galera. Ma – tu scrivi – di un’altra separazione
egualmente dura – e che tu hai sperimentato -, cioè quella di finire
nella prigione di un seminario. Tu l’hai sperimentato all’età di dieci
anni e poi dalla reclusione sei passato al sacerdozio: sei stato
obbligatoriamente arruolato nell’esercito del Papa. Ma hai avuto la
forza di liberartene.
E – almeno così a me pare – senza rabbia, con la
saggezza che può avere una persona reclusa e separata dai genitori
all’età di dieci anni.
Il punto è che questo arruolamento
obbligatorio nell’esercito del Papa colpisce soprattutto le famiglie
povere, che – pur soffrendo – pensano in questo modo di aver assicurato
il cibo e un letto al loro povero figlio.
Certo questo arruolamento
non è di massa, ma indubbiamente è un altro effetto della povertà. Un
effetto assolutamente trascurato dai mezzi di informazione e anche da
quei politici che si dicono ancora di sinistra. Non sono affatto un
anticlericale, ma penso che dovremmo dare più attenzione anche a questo
effetto (niente affatto religioso) della povertà. E poi dove li
mettiamo i diritti del fanciullo, che la nostra Repubblica dovrebbe
garantire?
p.s. Pubblico anche la lettera, piuttosto selvaggia, di
Antonio Zago. Francamente non capisco come un lettore (anche
occasionale) del manifesto possa essere così reazionario.
Saluti a tutti
Valentino Parlato

l’occasione. anzi no, un ricordo nodale.

prima ancora di quando sono uscito dalla chiesa, me ne sovviene un’altra: il tifo (nel senso "sportivo").

quando avevo 13 anni, rimasi sveglio oltre il mio solito orario a guardare da solo la partita. finale di coppa dei campioni. juventus (allora era "lammiasqquaddra") contro liverpool.

il risultato: -39 per il genere umano.
non mi ricordo tanto del giorno dopo. ho un vago sentore di averci messo del tempo a metabolizzare la notizia, come mi capita ancora quando ho una notizia pesante da metabolizzare. mi rivedo all’uscita da scuola a parlarne, capire dalle voci degli altri studenti che quelli erano fatti e non i miei incubi. non credo di aver pianto. non ho mai saputo farlo quando ne valeva davvero la pena. però ho provato un profondo senso di rifiuto per tutto ciò che si poteva associare a quella serata da idioti. e da allora non ho più avuto una mia squadra di calcio. e sono diventato ancora più diffidente verso gli umani, specie se in branco. il che aiuta molto a diventare un ancora più asociale, o quantomeno uno dalle relazioni sociali estremamente selettive e che si lascia coinvolgere difficilmente e mai del tutto.

convenzionalmente, possiamo collocare qui la perdita di tante ingenuità.
io non so come voi abbiate scoperto quanto sia fragile l’essere umano. soprattutto, quanto sia fragile di fronte ai suoi simili ed alle sue creature. e in ultima analisi di fronte all’ingordigia dei suoi simili.

ne vogliamo fare una analisi politica? ebbene si, facciamone una analisi politica. a me piacciono le analisi politiche. basta che non le faccia qualcuno che abbia meno di tre gradi di separazione dal parlamento e dai media itagliani.

e allora il potere economico del calcio, che impone fenomeni di massa e se ne fotte delle regole di sicurezza. e fin qui nulla di diverso dalla tyssen-kroup.
ma di più: il calcio come strumento di manipolazione del consenso, come vettore di agitazione di folle apparentemente incontrollabili e caotiche, come argine in cui incanalare le pulsioni potenzialmente politiche e sociali della fascia più insoddisfatta della popolazione in violenza priva di qualsiasi effetto sull’ordine della società, il calcio come laboratorio di violenza di piazza (quanto ha funzionato bene a genova?).

beh, da tutte queste cose mi sono tirato fuori. e visto che ci sono dei bei motivi se l’ho fatto, faccio fatica ad accettare che le  persone con cui passo del tempo ne siano affette.

e questo apre un discorso difficile. il limite di questo mio ricorrente allonanamento, seppur da cose che meritano di essere allontanate, è l’elitismo, il rischio di tagliare fuori anche cose buone, l’abitudine (a stare contro, dando per scontato sulla base delle esperienze che quello che fanno tutti sia una minchiata). e questo non si risolve, ci si convive e si fanno compromessi per evitare l’eremitaggio.

ricconoscimento

ovvero "allontanarsi dalle relazioni abusive". di questo voglio parlare. questo voglio (continuare a) fare della mia vita.

"trova il signore prima che il signore trovi te (e fallo secco)", ovvero se ci sono aspetti della tua vita, relazioni con persone, istituzioni, elementi culturali, dipendenze da sostanze, persone, elementi culturali, prodotti, compulsioni spontanee o scientificamente indotte, allora è meglio che le identifichi, le chiami per nome, e poi te ne liberi prima che loro ti succhino tutte le energie, il tempo, la giovinezza residua, le occasioni, le cose buone che hai e perché no anche i quattro o più soldi che possiedi. non aspettare, fallo subito.

sono propenso ad essere estremamente duro in questo processo, perché è necessario: il distacco è una cosa che o la si fa bene o non la si fa. un paragone molto istruttivo è quello delle tossicodipendenze ufficialmente riconosciute, eroina, cocaina, psicofarmaci. per motivi essenzialmente politici ed economici, le tossicodipendenze hanno immagini sociali molto diverse: alcune sono stigmatizzate e rifiutate, altre fanno parte di uno "stile di vita" accettato. può essere illuminante la parabola della cocaina, che stà passando da "droga pesante" a consumo di moda socialmente accettato, grazie anche alla sintonia che crea con l’accelerazione dei ritmi di produciconsumacrepa.

se mi guardo indietro, questo per me è un processo ciclico, con fasi di crisi e consapevolezza, e conseguente azione che si alternano a fasi di amnesia, riflusso, spreco e nuove dipendenze.e oggi è di nuovo il momento della crisi e consapevolezza.

ci sono alcue cose di cui mi sono già liberato.
o meglio, ci sono relazioni abusive che ho già rotto, ma questo non vuol dire per forza che non mi abbiano lasciato strascichi.

la prima che ricordo con chiarezza: verso i 16 anni, ho rotto in un breve periodo con la chiesa cattolica e con gli scout. a entrambe le istituzioni ero stato associato senza che si chiedesse il mio parere.

la più recente: dal 2005 mi sono disintossicato dalla dipendenza da televisione.

in mezzo ce ne sono molte altre, che magari racconterò in maggiore dettaglio. e soprattutto, davanti ce ne sono altre.

domande:

per me questo delle "relazioni abusive" è un problema serio, e liberarsene sono forti momenti di crescita. è così solo per me o è un’esperienza diffusa?
volete raccontare una vostra storia? mi casa es tu casa!

 

Congratulazzioni!

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