negri buoni

in tivù è passata Ilaria Cucchi a presentare un libro. in cui racconta di suo fratello Stefano, morto una volta di forza pubblica e un’altra volta di difesa dell’onorabilità dello stato. e questa è li a raccontarlo alla nazione in prima serata di domenica.

strano: di solito la tivù itagliana come mezzo di informazione è inutile. eppure ogni tanto qualcosa filtra. storie di persone che hanno subito in dei torti dallo stato. però non direttamente. magari attraverso un parente. come quando hai una figlia che è morta, e come premio di consolazione devi fare vent’anni di tribunali per avere indietro un cadavere da seppellire, perché c’è qualche troglodita esaltato che insiste che se respira è viva.

il non previsto incuriosisce, e uno si chiede perché ci viene graziosamente concesso di sentirli parlare.

una interessante coincidenza è che questi personaggi, che denunciano come lo “stato di diritto” non mantenga le sue promesse in modi gravissimi e senza alcun ritegno, cominciano da protocollo il loro intervento assicurando la loro più assoluta fiducia nel suddetto stato.

anzi,  la parola è “fede”, perché ormai nello stato ci si può credere solo per fede. come a gesù babbo natale e la fatina dei denti.

questi personaggi sono assolutamente rispettabili, la loro battaglia è giusta e ammirevole. ma quando arrivano in tivù a raccontare di come lo stato li ha aggrediti per capriccio, sono un’altra cosa. impersonificano un modo di reagire alle ingiustizie dello stato: lottare dall’interno, chiedendo fermamente che il sovrano si comporti meglio. il che è una scelta individuale assolutamente legittima. la mistificazione è far pensare che sia l’unica.

e no, non è che io pensi che dello stato possiamo disfarcene domani. ci sono dentro anch’io.

però le cose preferisco chiamarle col loro nome: lo stato è una cosa che mi viene imposta. il contratto sociale nessuno mi ha mai chiesto se volevo firmarlo. oppure no.

e lo stesso contratto viene macroscopicamente e sistematicamente infranto proprio in nome dello stato stesso.

perché il patto sociale reale è un altro. il potere disponibile tramite il voto è sempre stato solo una piccola fetta. e stà diminuendo. i diritti non te li regala nessuno, non sono per niente garantiti. se li vuoi te li devi guadagnare, sono il risultato di una negoziazione in cui devi mettere in campo la forza, in un modo o nell’altro.

come quando riempi le piazze. come quando saboti la produzione. come quando crei socialità. come quando saboti il consumo.

o come quando fai le guerricciole tutte dentro lo stato per costringerlo ad applicare – e magari solo a te – le sue stesse leggi.

o come quando scendi a patti con lo spettacolo, come le tante vittime dell’ingiustizia esemplare.

gli stessi che, visti dall’altro lato, sono i negri buoni che dimostrano che lo stato alla fine mette a posto tutto. se ti piace crederlo. e muoverti assumendo che si applichino quelle leggi che sono scritte. col rischio di diventare il prossimo.

nella piccola misura in cui investo nel cambiare lo stato di cose esistente, è perché ne ho un vantaggio. spesso più nel processo che nel risultato, come tutti

come metodo cerco di usare the right tool for the job. e lo stato non lo è. il più delle volte è un ostacolo.