le news UAAR segnalano una ricerca che cerca di spiegare le organizzazioni sociali in termini evoluzionistici (i padri procacciano cibo per i figli della loro famiglia in quanto loro figli biologici, quindi devono in qualche modo controllare che le femmine non abbiano figli con altri. un modello familiare monogamico semplificherebbe questa funzione. e per questa ragione verrebbe spinto dalle religioni).
in questo articolo si parte dall’assunto che l’obiettivo sia la prosecuzione della specie (e della linea genetica individuale di ciascuno), cioè che la forza che guida l’evoluzione diventi o debba diventare pari pari la motivazione delle scelte individuali.
però quando si parla di istinti, bisogna tenere conto che questi non cascano dal cielo, ma sono – sempre nell’ottica evoluzionista di cui sopra – il portato di una selezione il cui obiettivo è la prosecuzione della specie, non la felicità degli individui. cioè, gli esseri umani hanno cablati gli istinti a riprodursi e a curare la prole perché questo si è dimostrato il meccanismo migliore per garantire la prosecuzione di una specie che si organizza secondo modelli sociali sempre più complessi, e i cui individui sono sempre meno adatti a sopravvivere autonomamente in un ambiente naturale non antropizzato. la "felicità" che può (non necessariamente) dare una famiglia rientra solo come un meccanismo per rafforzare questi istinti, non è gratuita.
questo non toglie che gli istinti agiscano, per quanto uno possa essere conscio della loro origine, dargli una spiegazione scientifica invece che pensare che siano infusi da qualche amico immaginario per fini oscuri. e con questi istinti, con l’impatto che hanno sulla felicità individuale adesso, bisogna anche farci i conti.
però si può cominciare a sfrondarli della loro cornice ideologica. ad esempio: molti si trovano ad accudire un bambino che non è loro figlio biologico, tuttavia riescono a soddisfare onestamente sia i bisogni del figlio che il proprio istinto di genitorialità, e già questo esce dalla stretta "legge naturale" della prosecuzione della propria linea genetica.
l’individuo può allora chiedersi: ma io debbo per forza identificarmi come membro della mia specie, e quindi sentirmi obbligato a recitare la parte che mi viene imposta dagli istinti che mi ritrovo cablati per la sopravvivenza della specie, e – anche peggio – dalle sovrastrutture culturali che ci sono cresciute sopra, o posso cercare la mia felicità adesso?
ovvero può chiedersi: ma a me, adesso, quanto me ne frega della prosecuzione della mia linea genetica? quanto me ne frega della sopravvivenza della specie? quanto me ne frega della prosecuzione della cultura in cui sono immerso?