come mi ero ripromesso, non ho votato.
e non è che sia stato facile: mi ha lasciato comunque l’amaro in bocca. come le ultime volte che invece ci sono andato, ma di un sapore diverso.
si è trattato di lasciare andare l’illusione della democrazia rappresentativa. l’appartenenza alla categoria, e alla conseguente comunità, di quanti si riconoscono in questo patto sociale. rinunciare all’illusione di essere titolare di una parte del potere in quanto cittadino-che-imbuca-la-scheda. riconoscere uno strumento come inadatto allo scopo. e dopo rendersi conto di quanto poco rimanga.
e ancora, prendere atto di quanto sia diffusa la fede nella democrazia rappresentativa. perché di religione si tratta: di un gruppo a cui sono stato iscritto per essere nato in un certo luogo da genitori autoctoni. non per merito e non per mia scelta. una appartenenza che si pretende non possa essere messa in discussione: ho la libertà di votare per questo o per quello, o persino di candidarmi, ma non di non riconoscere il potere di che su questa scelta sostiene di fondarsi. certo è un passo avanti rispetto alla monarchia, ma non mi basta.
questo potere poi lo riconosco, ma per senso della misura e per praticità, perché esercita ancora un parziale monopolio della forza, perché gestisce un sistema burocratico di cui sono ancora abbondantemente utente.
la "democrazia" è sempre di più un’imposizione, una gabbia.
e in quanto tale prima o poi andrà stretta.