da Femminismo a Sud: Una splendida storia d’amore
Lei la
chiameremo Carmen. Ovviamente non è il suo vero nome. Ci ha scritto una
lunga lettera chiedendoci di correggerla e riscriverla se necessario
fino a che non riuscisse evidente l’esatta descrizione della
successione degli eventi e soprattutto delle emozioni, dei sentimenti
privati, che sono parte fondamentale di questa storia.
Quella
che leggerete è il risultato di un lavoro a più mani. E’ anche il
risultato della comprensione profonda di quanto è avvenuto, perchè non
è semplice veicolare le ferite altrui senza prima aver lasciato che il
dolore lasci sanguinare anche noi.
Descrivere
un dolore che appartiene ad un’altra senza trasferirvi letture
proiettive e personalizzazioni è veramente difficile. Quello che noi
facciamo è però certamente una scelta: raccontare le storie sempre
dalla parte delle donne. Storie complesse in cui il bianco e il nero
non esistono. Storie che ci restano attaccate addosso come se le
avessimo vissute personalmente. Storie che speriamo restino attaccate
addosso anche a voi perchè apriate gli occhi e riusciate a guardare la
vita di vostra sorella, vostra madre, vostra figlia o compagna con
strumenti di comprensione che vi permettono di percepire qualcosa in
più.
Perchè molto
spesso ci consoliamo del fatto che le donne che conosciamo non
subiscano violenze solo perchè noi non siamo in grado di vedere quello
che realmente accade. Accendete la mente e raffinate lo sguardo. Così
forse potremo salvare una vita in più. Un grazie immenso e un abbraccio
infinito a Carmen. Buona lettura!
>>>^^^<<<
Volevo
dire, è cominciata che io avevo bisogno di qualcuno ed è arrivato lui.
Mi ha amata subito e io mi sono sentita bene. E’ bello essere amati.
Era una presenza assidua e mi riempiva di attenzioni e non ci feci caso
quando mi disse di andare a vivere insieme. Mi sembrò naturale, per
nulla imprudente. Avevo in mente di essere felice. Chi non ha un
obiettivo così?
Stare insieme non era per nulla complicato e mi
piaceva farmi coccolare. Poi venne il tempo in cui io dovetti
riprendere la mia vita. Amici, lavoro. Lui non era molto felice di
questo. Mi voleva tutta per sè, gli bastava stare con me, anzi stare
con me era il suo punto di forza.
Lo invitai dove possibile a
seguirmi e lui venne. Il suo umore peggiorava giusto quando il mio
migliorava. Invadeva le mie conversazioni, si frapponeva tra me e un
altro interlocutore. Poi chiedeva scusa. Cominciò così, senza che me ne
rendessi conto, a innalzare un muro tra me e il resto del mondo. Un
muro fatto di delizia, amore infinito e cura costante.
Provare
a spostare un mattone per respirare significava sorbirsi il suo muso e
i sensi di colpa. Lui così buono e io che provavo a evadere dalla
prigione dorata che aveva costruito attorno a me.
Gli piaceva
trovarmi a casa a tutte le ore. Gli piaceva adorarmi e poi prendersi
l’amore che gli era dovuto. Cominciai presto a odiare le sue mani e poi
il suo odore. Dio che pena riuscire a non urlare quando mi si
avvicinava. Le mani, la bocca e quel suo modo di scusarsi per il sesso
mal riuscito. Ho provato a spiegargli, non sapete quante volte, che mi
piaceva fare sesso respirando. Niente ossigeno, niente sesso.
Diventavo
ogni giorno più triste e cominciai a mangiare per calmare l’ansia. Se
diventavo brutta lui non mi avrebbe più voluta, mi avrebbe lasciata
libera. Invece mi voleva sempre e anzi più avevo difficoltà a vivere
più la sua sicurezza aumentava.
Premuroso, gentile,
incredibilmente buono era l’uomo più egoista che io avessi mai
conosciuto. Avrebbe preferito avere accanto una donna in punto di morte
pur di non sapermi viva, pur di non sentirsi in preda alle sue paure,
alla sua insicurezza. La paura di perdermi. Se ero brutta chi mai mi
avrebbe voluta?
Ingrassare non servì a niente. Lui mi toccava e
sentivo il peso del suo costante ricatto mentre provavo a restare ferma
nell’angolo più estremo del letto, quasi senza respirare.Non mi
toccare. Non mi toccare. Invece lui allungava la mano. Io gli dicevo di
no e lui riusciva ad intrappolarmi ancora nel mio senso di colpa.
Fu
quando ebbi la prima conseguenza fisica dell’obesità che si rese conto
che mi stavo lasciando morire. Fu allora che riuscii a dirgli che lui
non era buono, altruista, gentile. Era solo una persona insensibile e
priva di empatia che per stare bene con se stesso aveva chiuso a chiave
la sua donna.
Io non lo so com’è la vita di una donna che viene
picchiata dal suo uomo. Il mio compagno non l’ha mai fatto ma ho come
l’impressione che se l’avesse fatto io avrei avuto una ragione sociale
accettabile per andarmene. Chi mai avrebbe creduto al mio malessere.
Chi avrebbe capito la mia sofferenza accanto un uomo che lavava i
piatti e mi rimboccava le coperte. Mia madre non faceva che dirmelo:
quanto sei fortunata, hai trovato un uomo d’oro, un santo. Allora
perché io avevo solo voglia di morire?
Superai la soglia dei 140
chili e quasi non riuscivo più a camminare. Il mio compagno fu bravo a
individuare la patologia e a indicarmi il medico giusto. Com’era
efficiente quando si trattava di non assumersi le sue responsabilità.
Meglio attribuirle ad una patologia. Poverina io che ero malata e lui,
il sant’uomo, che veniva persino a fare i colloqui con me per dire al
mio dottore quanto lui stava facendo, che tipo di consigli mi dava,
com’era presente.
Non riuscivo ad agire il mio rapporto e non
riuscivo ad essere protagonista neppure della mia malattia. Per niente
utile. Per niente considerata io, oramai, in casa ero solo la malata.
Lui confabulava al telefono con mia madre e lei si raccomandava di
tenermi d’occhio.
Il mio percorso clinico prevedeva alcune sedute
di psicoterapia. Ci volle del tempo ma, nonostante l’assenza di
sensibilità dello psicoterapeuta, il quale parlava di "pensieri
distorti" mentre raccontavo della mia vita di coppia (sei tu che vuoi vederla così!!! Io???),
nonostante il suo autoritarismo, l’imposizione di farmaci che non
volevo prendere, alla fine mi convinsi che dovevo ricominciare a vivere
per me stessa.
La dietologa mi assegnò una dieta e dovetti
impegnare tutta la forza che avevo in corpo per perdere i primi chili.
Accompagnavo la dieta a degli esercizi e presto cominciai a sentirmi
più agile e ripresi persino ad uscire per vedere qualcuno. Pretesi di
farlo da sola dicendo al mio compagno che certo lui avrebbe capito che
si trattava del mio momento. Solo facendogli apparire nobili i suoi
gesti riuscivo ad ottenere qualche concessione.Di ritorno a casa però
voleva gratitudine e dovevo mostrargli di apprezzare il suo desiderio.
Lui voleva assicurarsi che quel corpo fosse ancora suo.
Più
avanzava la terapia e più aumentava la mia autostima e se aumentava la
mia autostima diminuiva la sua. Come una bilancia squilibrata. Prese a
impormi i suoi pessimi stati d’animo, i suoi cambiamenti d’umore. Lui
non era mai felice se io ero felice. Lui stava bene solo quando io non
esistevo. Cercò di vincere in tutti i modi la mia forza di volontà e
stava in cucina a pastrocchiare con pietanze di vario tipo, la casa
piena di odori e lui ogni volta a chiedermi se volevo assaggiare
qualcosa. Poi fu la volta dei dolci. Ne portava in continuazione e la
mia volontà vacillava.
La prima volta che caddi nel tranello mi
sentii in colpa per giorni e giorni. Seguirono numerose abbuffate e lui
improvvisamente tornò a sorridere. Mi faceva ammalare per poi curarmi,
sentirsi necessario, assicurarsi un ruolo di custode, anzi di gestione
del mio corpo e della mia vita. Mi consolava, chiedeva se stavo bene e
avrei voluto urlargli di no, che stavo malissimo.
Durò tre anni.
Alti e bassi in cui lui mi perdeva e si riaffrettava a ricostruire la
prigione. Io buttavo giù il muro e lui aggiungeva mattoni su mattoni.
Si rese conto, mi chiese scusa ma continuava a farlo. Dicevo a me
stessa che gli uomini che chiedono scusa dopo averti picchiato dovevano
essere pressappoco dello stesso tipo.
Ci vuole un tempo infinito
per capire di essere oggetto di violenza psicologica e ci si sente in
trappola perché è una violenza che percepisci solo tu. Impossibile da
raccontare. Cosa avrei dovuto dire? Scusi sa, il mio uomo non mi
permette di fare nulla in casa e mi porta un sacco di dolci? Sai le
risate. Non mi aveva creduto neppure lo psicoterapeuta, figuriamoci gli
altri. Molto più semplice etichettarmi come malata, una da assistere,
priva di capacità di leggere le proprie sensazioni, piuttosto che come
individuo che aveva bisogno di non dubitare di sè e di riappropriarsi
della voglia di vivere e della capacità di reagire.
Era davvero
troppo difficile spiegare come mi sentivo, che ero solo uno dei punti
in programma della giornata che il mio uomo teneva sotto controllo. Lui
teneva tutto sotto controllo. Il suo sguardo fisso, qualunque cosa
facessi per sentirmi autonoma, lui arrivava a correggermi. Troppa
schiuma sui piatti, troppo ammorbidente sui panni, troppo detersivo per
lavare il cesso.Non avevo voce in capitolo su nulla. Io non contavo
nulla. I miei pareri lo annoiavano. La mia opinione lo indispettiva.
Mai mostrare di saper fare qualcosa indipendentemente da lui. Mai
mostrarmi sicura davanti a lui. Era una cosa da non fare.
Mi
venne in soccorso il gruppo incontrato a fisioterapia e fu lì che
scoprii che non ero l’unica ad essere intrappolata in un rapporto
pericoloso prima ancora che nel mio corpo. Tante altre avevano lo
stesso problema. Ingrassare per non morire, scoprendo poi che si
trattava invece di un lento suicidio.
Una di loro mi ha
presentato un’amica e quella mi ha presentato un’altra amica che mi
offrì ospitalità. “Devi andartene!” – mi disse. Presi il necessario e
scappai via, prima che lui tornasse. Prima che mi intrappolasse con i
sensi di colpa, e ti amo, e non ti voglio perdere, e dopo tutto quello
che ho fatto per te, e altre cose del genere. Non avrebbe mai capito
che per guarire da una malattia bisognava stare lontane dalle cause che
l’hanno generata.
Mi stava uccidendo lentamente e io non avevo
casa né lavoro. Nonostante i titoli di studio e la preparazione nessuno
voleva assumere una che pesava più di un quintale. L’amica che mi ha
ospitato mi offrì un letto piccolo che non potrò mai dimenticare. Era
così piccolo che avevo paura di cadere. Fu in quel letto che
riassaporai la serenità di un buon sonno. La mia stanza, uno
sgabuzzino. Riuscivo a muovermi a malapena. Lei non mi chiese un soldo.
La aiutavo con suo figlio e tenevo in ordine la casa.
In poco
tempo riacquistai il piacere di sentirmi sicura delle mie azioni. Ero
in grado di organizzarmi e organizzare la vita di un bambino. Come
rideva mentre gli leggevo le favole. La mia amica nel frattempo si dava
da fare per aiutarmi a trovare un lavoro. Ne trovai uno semplice, in
mancanza d’altro finii con il prendermi cura di una signora anziana che
stava nello stesso palazzo. E’ uno strano destino quello che mette le
donne le une al servizio delle altre. Come se non avessimo nessuna
alternativa a parte quella di soccorrerci a vicenda.
Non
guadagnavo molto ma questo mi consentiva di pagare una piccola quota
dell’affitto e di dare una mano alla donna che mi aveva preso in casa.
Non dissi al mio ex dov’ero. Non glielo dissi per parecchio tempo. Lui
si diceva preoccupato. Disse che avrebbe chiamato i medici per un
ricovero coatto. Poi si mostrò per quello che era. Piangeva al
telefono. Mi pregava di tornare, che non poteva fare a meno di me. Lo
chiamai solo una volta per dirgli che non aveva alcun bisogno di me.
Mentre io c’ero lui non mi vedeva neanche. Non aveva mai visto niente
di me. Ero assolutamente invisibile. Lui continuava a vedere solo se
stesso, i suoi bisogni, il suo dolore. Del mio bene non gli interessava
nulla.
Vivo ancora a casa della mia amica, oramai una sorella,
suo figlio è cresciuto e io occupo un letto diverso in una stanza
diversa. Fortuna ha voluto che almeno lei una casa ce l’avesse e me la
offrisse come rifugio. Se non fossimo assolutamente eterosessuali
potremmo dirci una coppia di fatto. Il nostro è stato un patto di mutuo
soccorso. Ora siamo praticamente una famiglia.
Ho ripreso a
guidare. Ho anche comprato una macchina. Piccola. Di più non potevo
permettermi. Nel mio lavoro sono diventata brava. C’è sempre qualche
anziana donna da assistere. Prima o poi anch’io e la mia amica avremo
bisogno di assistenza. Nessuno altrimenti si prenderà cura di noi.Non
sappiamo se a noi toccherà una pensione e viviamo nell’incertezza.
E’
questa la nostra misura. Quella di essere in grado di vivere nel caos e
nella precarietà. Il mio ex al nostro posto si sarebbe già tagliato le
vene.
L’ho rivisto infine. Ha trovato un’altra da accudire. Ha detto che sono felici, ma lo diceva anche di noi. Spero sia vero.
Quello
che so è che io sono viva. Sono viva e non è cosa da poco. Certo, se
non avessi trovato una amica, una casa e un lavoro avrei smesso di
vivere parecchio tempo fa. E se non avessi trovato questo blog non
avrei trovato la forza di raccontare questa storia.
Spero serva a qualcuna che ancora è intrappolata nella sua “splendida storia d’amore”.
—>>>Nell’immagine la cantante Beth Ditto,
giustamente orgogliosa del suo corpo. Non è importante essere più o
meno pesanti per stare bene con se stessi. L’importante è che sia una
condizione che si sceglie, piace e con la quale si sta bene. Altra cosa
è se il peso corrisponde ad un pessimo stato d’animo.