in teoria il bello dello stare da solo è che ti sottrai al giudizio altrui. ma non è così facile. non per me almeno, perché mi porto sempre dietro qualcuno che mi guarda e giudica.
solo per fare qualche esempio, ci sono gli amici immaginari gli angeli custodi gli spiriti del focolare i poliziotti nella testa e le telecamere immaginarie che ti spiano. ci sono io che mi guardo da fuori mentre interpreto un qualche stereotipo.
ci sono io che mi vedo apatico e pigro, che mi vedo sprecare il tempo, e mi sprono a fare qualcosa. mi sdoppio in una parte indolente e tendenzialmente depressa ed una che decide razionalmente di “reagire” perché sa che poi prima o poi ne varrà la pena. di fare qualcosa tanto per uscire da questo stato di pigrizia. per dimostrare di essere vivo. per creare occasioni che mi rendano effettivamente vivo.
poi mi capita una peculiare paranoia, soprattutto quando sono stanco: mi proietto in un futuro prossimo in cui vengo interrogato da un poliziotto particolarmente ottuso, a cui devo raccontare quello che sto facendo o che ho fatto di recente. e gli devo spiegare tutto di quello che faccio. tipo cos’è un pranzo sociale o una critical mass o il pogo o arrampicarsi sugli alberi o ballare in una piazza come se lo stato non ci fosse, perché lui non ne ha mai sentito parlare. e sono cose difficili da spiegare a parole, più che altro sono esperienze da provare. cose di cui puoi capire il gusto solo se ti piace il sapore della libertà e riesci almeno talvolta a non farti condizionare dal giudizio. cosa tipica dei poliziotti ottusi…
nel pensare a come raccontare queste cose, mi difendo preventivamente dal rischio che lui ci trovi qualche reato (che talvolta volendo ci sarebbe). qualche motivo per giudicarmi. per considerarmi malato e mandarmi in qualche officina a far revisionare. come gli androidi da che hanno sentimenti simili a quelli umani ma vengono revisionati come macchine: sono gli umani che temono di essere gestiti da un meccanismo di controllo sociale e medicalizzazione espropriante.
questa paranoia ad occhi aperti rielabora l’esperienza di raccontare ai colleghi di lavoro le cose che faccio per divertimento. la mia vita è abbastanza nettamente biforcata tra persone e situazioni che frequento primariamente in cambio di soldi e altre che frequento per scelta. per piacere, il più delle volte. più raramente per qualche ideale. con molti colleghi, dopo anni di convivenza e di schiavitù e di lavoro e pure di scazzi, ho anche abbastanza un buon rapporto, e mi piace condividere le cose che mi rendono felice. ma poi mi tocca spiegare per filo e per segno. sarà che cerco il piacere in modi veramente bislacchi. sarà che non mi sembra così improbabile che un giorno o l’altro mi rinchiudano in qualche gabbia per questo. sarà che non sono per niente convinto di poter superare un esame di “salute mentale”. e mi va bene così, perché lo riconosco come un problema politico e non di salute. corro il rischio. con questa paranoia faccio l’esercizio di presentare la mia vita in modo che possa sembrare accettabile, o almeno comprensibile, a chi si identifica con la tutela di un ordine sociale malato che disprezzo.
il problema è riuscire a vivere in prima persona.
forse se sei in mezzo ad altra gente il giudizio lo ricevi direttamente e puoi chiamarlo per nome e riconoscerlo come altro da te. il chi implica un sé che si definisce in quanto riceve un giudizio. se stai da solo, devi interpretare tutti i ruoli ed è più facile confondersi.