Quando parlano di te come se non ci fossi, che sia per distrazione, mancanza di rispetto o voluta scortesia, senti parlare di te in terza persona. È brutto.
Perché ti fa vedere quanto sia arbitrario il legame tra come (ti) percepisci e come vieni raccontato dagli altri. Quello che percepisci di te, quello di cui parlano. Sono due oggetti diversi, non c’è verso di conciliarli.
Quando parlano di te con te, riesci ancora a ricucire i due piani. E già è una fatica. Devi saper usare le parole. Tutti devono saper ascoltare. Non è roba comune.
Quando parlano di te in tua assenza, è normale. Ma anche quello te lo racconti. Te lo fai raccontare. Te lo immagini. Ne leggi anche a sproposito gli effetti visibili. E gli dai un senso.
Ma quando senti che parlano di te senza includerti nella conversazione vieni violentemente esposto alla distanza inconciliabile tra i due piani, e devi scegliere: sei quello che senti, o sei quello di cui parlano?
E se poi succede che parlano di te in terza persona quando sei dipendente fisicamente ed emotivamente, tipo un bambino, non hai tanta scelta: tu sei quello di cui parlano tra loro. E le tue emozioni, i desideri, esistono solo nella misura in cui ne parlano. Ma tu non vuoi che ne parlino, perché ormai hai capito benissimo che se lo fanno faranno un macello. Hai perso ogni fiducia emotiva.
E poi sarai sempre quello di cui qualcun’altro parla.
E poi sarai sempre uno che non ha il coraggio delle sue emozioni.