delle ripetizioni

dei rischi che si corrono. di quelli che ti aspettavi e di quelli che no. di quelli che avresti voluto e di quelli che continui a portarti dietro.

dell’essere ancora una volta costretto a difendermi. ad erigere barriere. a perdere fiducia.

più prosa che poesia.

del rivendicare la mia vulnerabilità. i gusti. le intolleranze. i vizi.

dell’essere ingannato dal corpo. ecco, questo non me l’aspettavo. è una grandiosa macchina di bullshit detection, ma può essere ingannata. come un cane da spinelli. con droghe migliori. easy-peasy.
altra cosa da imparare: quando aumenta il bisogno di sfoghi fisici, chiedersi: cosa sto compensando?

che il campanello d’allarme sia stato un momento di orgoglio infantile, mi ha stupito ma in fondo ha un suo perché.
riconoscere che è anomalo che io sia così vulnerabile.

dell’essere riportato alla superficie dalla razionalità e dall’orgoglio. anche questo non me l’aspettavo. dell’esserci già passato. questo in fondo non stupisce. siamo così prevedibili.

la forza che mi da la rabbia. questa è una certezza. lasciarla cadere è sempre difficile. odio ancora.

quello che c’è, quello che voglio. usare la rabbia per superare la rabbia.

mancanze che non pensavo di sentire

e prendersi la responsabilità di esistere senza essere sostenuti dal giudizio altrui.

e i paletti che allo stesso tempo ti limitavano e ti sostenevano. sono scelte

della complessità come corazza

la mia posizione temporale è vivere proiettato in un futuro prossimo in cui gli aspetti più insignificanti della tua vita vengono passati in rassegna da un investigatore ottuso. perché sì, il mio poliziotto interiore è ottuso. gli mancano le basi per capire le cose che faccio. o forse sono anche io che gioco a complicarmi la vita per ingannarlo. forse se invece smettessi di sognare quel sogno. questo incubo non mio. potrei anche dedicarmi a cose più semplici e sarebbe tutto guadagno.

dello stare da solo

in teoria il bello dello stare da solo è che ti sottrai al giudizio altrui. ma non è così facile. non per me almeno, perché mi porto sempre dietro qualcuno che mi guarda e giudica.

solo per fare qualche esempio, ci sono gli amici immaginari gli angeli custodi gli spiriti del focolare i poliziotti nella testa e le telecamere immaginarie che ti spiano. ci sono io che mi guardo da fuori mentre interpreto un qualche stereotipo.

ci sono io che mi vedo apatico e pigro, che mi vedo sprecare il tempo, e mi sprono a fare qualcosa. mi sdoppio in una parte indolente e tendenzialmente depressa ed una che decide razionalmente di “reagire” perché sa che poi prima o poi ne varrà la pena. di fare qualcosa tanto per uscire da questo stato di pigrizia. per dimostrare di essere vivo. per creare occasioni che mi rendano effettivamente vivo.

poi mi capita una peculiare paranoia, soprattutto quando sono stanco: mi proietto in un futuro prossimo in cui vengo interrogato da un poliziotto particolarmente ottuso, a cui devo raccontare quello che sto facendo o che ho fatto di recente. e gli devo spiegare tutto di quello che faccio. tipo cos’è un pranzo sociale o una critical mass o il pogo o arrampicarsi sugli alberi o ballare in una piazza come se lo stato non ci fosse, perché lui non ne ha mai sentito parlare. e sono cose difficili da spiegare a parole, più che altro sono esperienze da provare. cose di cui puoi capire il gusto solo se ti piace il sapore della libertà e riesci almeno talvolta a non farti condizionare dal giudizio. cosa tipica dei poliziotti ottusi…

nel pensare a come raccontare queste cose, mi difendo preventivamente dal rischio che lui ci trovi qualche reato (che talvolta volendo ci sarebbe). qualche motivo per giudicarmi. per considerarmi malato e mandarmi in qualche officina a far revisionare. come gli androidi da che hanno sentimenti simili a quelli umani ma vengono revisionati come macchine: sono gli umani che temono di essere gestiti da un meccanismo di controllo sociale e medicalizzazione espropriante.

questa paranoia ad occhi aperti rielabora l’esperienza di raccontare ai colleghi di lavoro le cose che faccio per divertimento. la mia vita è abbastanza nettamente biforcata tra persone e situazioni che frequento primariamente in cambio di soldi e altre che frequento per scelta. per piacere, il più delle volte. più raramente per qualche ideale. con molti colleghi, dopo anni di convivenza e di schiavitù e di lavoro e pure di scazzi, ho anche abbastanza un buon rapporto, e mi piace condividere le cose che mi rendono felice. ma poi mi tocca spiegare per filo e per segno. sarà che cerco il piacere in modi veramente bislacchi. sarà che non mi sembra così improbabile che un giorno o l’altro mi rinchiudano in qualche gabbia per questo. sarà che non sono per niente convinto di poter superare un esame di “salute mentale”. e mi va bene così, perché lo riconosco come un problema politico e non di salute. corro il rischio. con questa paranoia faccio l’esercizio di presentare la mia vita in modo che possa sembrare accettabile, o almeno comprensibile, a chi si identifica con la tutela di un ordine sociale malato che disprezzo.

il problema è riuscire a vivere in prima persona.

forse se sei in mezzo ad altra gente il giudizio lo ricevi direttamente e puoi chiamarlo per nome e riconoscerlo come altro da te. il chi implica un sé che si definisce in quanto riceve un giudizio. se stai da solo, devi interpretare tutti i ruoli ed è più facile confondersi.

violento egoismo

i nemici veri sono quelli che ti porti dentro. l’omino nella testa che ti dice che non va bene che sei felice. che dovresti invece ottenere dei risultati. che non dovresti proprio esistere. che non vai bene. che non sei abbastanza. o troppo. o nel momento sbagliato.
lo riconosci perché in un modo o nell’altro ti dice che devi.

è duro averci a che fare. se non vuoi fare come dice lui, lo puoi stordire di sensazioni, di fatica, di piacere, di droghe, di lavoro, di noia. o puoi provare ad accoglierlo riconoscerlo e coccolarlo. se sei fortunato lo tieni a bada, ma non te ne liberi. come l’herpes: ce l’hai. anzi, quello sei tu.

bisogna sempre ascoltare le reazioni del corpo. aiutano a riconoscere, se non me ne accorgo da solo, la ferita lasciata da una imposizione. il tentativo di dirigermi ad azioni e comportamenti contrari alla mia felicità. mi sembra una ragione sufficiente per rifiutare, no?

aiutano anche a riconoscere quando stai davvero bene. chi ti rispetta e chi no. chi ti lascia spazio per crescere e chi ti chiude in una scatola. chi ha l’integrità per accettare la tua fragilità e chi ha troppa paura della propria.

agire di conseguenza, è un sovrano atto di egoismo. self-love. the highest form of.

mi spiace. anzi no. non voglio avere a che fare con persone che mi raccontano in un ruolo che non è il mio. che non è quello che sento e che voglio. importa poco se lo fanno per cattiveria intenzionale o perché non sanno fare diversamente. l’etica è così sopravvalutata. importa se mi fa bene averci a che fare oppure no.

beh, io ho diritto a stare bene. al piacere. ad amare. e tenere i contatti con persone che stanno male e mi fanno stare male me lo impedisce.

delle volte c’è bisogno di tenersi lontani dal proprio ambiente, se lì hai addosso un personaggio negativo o comunque scomodo. se ti impediscono di cambiare copione, cambia teatro.

io ho il diritto di abbassare la barriera della rabbia. di provare amore. di ascoltare. perché così tante persone hanno qualcosa di bello da dire. ma anche di non ascoltare, quando hanno da dirmi solo quello che dovrei fare.

non mi posso permettere l’empatia con chi usa il ricatto morale per trascinare anche me nella sua palude di dovere.

che poi li capisco: se sei nel fango e ci vuoi restare, devi convincerti che lì si sta bene. e vedere qualcuno che non nuota nel fango è un problema.

e no, non penso sia un problema temporaneo. è come sono.

posizioni pragmatiche sulla circolazione

La bicicletta è il perfetto traduttore per accordare l’energia metabolica dell’uomo all’impedenza della locomozione (Ivan Illich).

In città la bicicletta è il modo più rapido per andare da A a B se A e B distano da 1 a 5-10km, le pendenze non sono esagerate, il tempo non è troppo estremo, non si devono portare grossi carichi. Il limite superiore dei vari vincoli dipende dallo stato di forma fisica della persona interessate dalla adeguatezza della attrezzatura e delle infrastrutture, e tende a salire gradualmente con l’uso regolare della bici.

Piacere del movimento, attività fisica, connessione con il proprio ambiente, socialità, economicità, basso impatto ambientale rendono individualmente e socialmente preferibile l’uso della bicicletta a qualsiasi mezzo a motore.

Da un punto di vista meramente economico, la valutazione di tempo impiegato e costo del trasporto deve essere fatta in modo congiunto, considerando quanto il risparmio di usare la bicicletta invece che l’auto riduca la necessità di lavorare per procacciarsi denaro per pagare le spese dell’auto.

In un bilancio del tempo di vita, quello dedicato allo spostamento in bicicletta va considerato anche come tempo dedicato all’attività fisica. Va altresì considerato il risparmio economico dovuto al sostituire forme di attività fisica costose quali l’uso di una palestra con una non costosa come la bicicletta.

Muoversi in bici permette di evitare i picchi di concentrazione di inquinanti, scegliendo percorsi lontani dal traffico, restando meno tempo in coda e mettendoci meno tempo a percorrere il proprio tragitto, e di evitare la maggiore concentrazione locale di inquinanti che si verifica all’interno dell’abitacolo di un’auto.

La manutenzione ordinaria della bicicletta è alla portata di tutti per competenze e abilità manuali e attrezzature richieste, e porta i classici vantaggi di una attività Do-It-Yourself (risparmio, arricchimento personale, relax, indipendenza).

L’uso dell’automobile costituisce un importante contributo all’economia (acquisto, carburante, manutenzione, assicurazione, incidenti, riparazioni, costruzione e manutenzione di strade e parcheggi, consumo di territorio, espansione delle periferie, spese mediche, mancanza di esercizio fisico e quindi consumo di palestre, prodotti dimagranti, problemi di salute dovuti alla mancanza di attività fisica, malessere psichico e quindi consumo di vari tipi di droghe, psicoterapia, incidenti da malessere psichico). La maggior parte di questi contributi presentano cospicue esternalità negative sul livello di vita e di felicità, ma evidentemente il peso del contributo all’economia del dannoso prevale su quello del danno. In omaggio a tali considerazioni economiche, gli eletti si guardano bene dall’agire in modo incisivo per la riduzione dell’uso dell’automobile.

La circolazione delle biciclette si svolge spesso su infrastrutture condivise con mezzi motorizzati e da questi congestionate. I conducenti dei mezzi a motore sono spesso di cattivo umore a causa delle inefficienze e della mancata piacevolezza della loro modalità di trasporto (tempo perso, senso di impotenza, conflitti, costi elevati), e tendono a dirigere erroneamente il proprio malumore contro chi fa un uso più intelligente della strada e del proprio tempo. Questo comporta una generale noncuranza per la sicurezza dei ciclisti. Il ciclista è quindi costretto a misure di autotutela.

Il codice della strada prescrive che le biciclette, in ragione della loro minore velocità massima, debbano procedere “più vicino possibile al bordo della strada”. Questa prescrizione riflette un giudizio di valore deteriore basato sulla velocità massima, e se seguito alla lettera comporta seri rischi per l’incolumità dei ciclisti:

  • sportelli di auto parcheggiate a bordo strada
  • auto che si immettono nella circolazione guardando solo le auto in arrivo da dietro e senza dare la precedenza
  • auto che svoltano tagliando la strada al ciclista
  • auto che si immettono sulla strada da traverse o passi carrabili
  • auto che escono da una rotonda tagliando la strada al ciclista
  • sorpasso senza rispetto della distanza di sicurezza, o quando la larghezza della corsia non lo permette
  • in generale, gli automobilisti tendono a guardare con maggior attenzione davanti a loro che sul margine destro della strada, aumentando il rischio di non notare un ciclista

La tutela migliore rispetto a questi rischi è mantenere una adeguata distanza di sicurezza in presenza di potenziali fonti di rischio sul margine destro. Tale distanza varia tra 1m e 2m, in ragione della propria velocità.

I vantaggi di tale pratica compensano ampiamente il maggior rischio di essere investiti da dietro, considerando anche che spostandosi verso il centro della carreggiata ci si mette in condizione di essere visti più facilmente dai mezzi che arrivano da dietro.

Alcuni automobilisti potrebbero essere irritati da questa pratica, in quanto riescono a percepire solo che la loro velocità massima viene limitata, e non si rendono conto che anche se rallentano perché hanno davanti un ciclista poi si ritrovano in coda allo stesso semaforo o rotonda.

Quanto alle piste ciclabili, quasi ovunque in italia manca la volontà politica e la competenza tecnica per progettarle in modo che non siano una punizione o un rischio maggiore per chi le usa, per realizzarle e mantenerle in modo che non siano in condizioni peggiori della strada, per difenderle dal parcheggio selvatico. Se non vengono usate, ci sarà un motivo.

diritto alla bellezza

stamattina in autostrada
avevo davanti questo camion
con dei grossi tubi di tondino di ferro da costruzione
delle colonne a cui mancava il cemento

cinque, messi per il lungo
e già erano belli da vedere così,
cinque come il cinque sui dadi
ma. quando il camion passava dalla luce all’ombra e poi alla luce
per gli alberi le curve le gallerie
vedevi la luce e l’ombra che si propagavano lungo i tubi
dalla cabina del camion verso il fondo
faceva questo effetto psichedelico che manco a farlo apposta

e allora mi sono messo dietro a guardarlo
che i tubi erano dritti ma se se li guardavi da dietro sembravano coni
colpa della prospettiva
e vedevi dei cerchi concentrici che si muovevano verso il centro
alternati chiari e scuri
e allora ogni volta che passava un’ombra era
uau
uuuau

avrei dovuto seguirlo fin dove andava per vedere l’effetto
magari andava anche in un bel posto.
la bellezza. è dove meno te l’aspetti.
ma quanta fatica chiamarla per nome
ammettere di averne diritto

sulle festività

quando succede che ti augurano “buon natale”. i più sensibili sanno che se allergico e allora lo sostituiscono con un “buone feste”.

ma poi uno si fa delle domande: le feste sarebbero per definizione dei momenti di benessere, e allora l’augurio è ridondante. a che serve quindi?

l’augurio per le festività si inscrive in una logica di vita sacrificale-rinunciataria(-cattolica), percui nella maggior parte dei giorni si deve subire (con entusiasmo, possibilmente) un esistente fatto di lavoro consumo famiglia stato e quant’altro, in cambio di un piccolo numero di giorni all’anno in cui si viene esentati dal lavoro. tipicamente, per venire buttati dritti nelle mani della famiglia. cioè, oltre il danno la beffa.

ma anche se uno considera lo stare con la famiglia una cosa positiva (e ce ne sono, dicono), il problema del poter fare le cose che ci piacciono, anzi uno dei problemi, è che il tempo per farle ci viene sottratto dal lavoro.

quindi si viene dispensati dal lavoro solo in cambio dell’adorazione di una collezione di amici immaginari, di soggezione alla famiglia, al consumo e a varie altre droghe. ma questo è l’esistente.

invece che prenderlo come unica prospettiva, si possono fare sogni migliori. in cui obbligare le persone ad un solo minuto di lavoro non necessario è immorale. ed è riconosciuto un diritto soggettivo a consistenti dosi di tempo libero dal lavoro, senza dover ringraziare nessun amico immaginario e senza dover per forza pagare pegno a qualche droga.

 

il valore dei soldi

Uno pensava di lavorare in cambio di soldi, e che i soldi gli servissero a consumare, cioè a soddisfare dei bisogni.

Di cui poi la maggior parte sono indotti, nocivi, insoddisfacenti. Brutto, ma volendo è anche peggio.

In realtà, i soldi sono un riconoscimento sociale che fornisce identità ad una persona in quanto attore economico, produttore di reddito e consumatore. Una identità a buon prezzo. Tu sei i soldi che fai e spendi.

Infatti la favola della retribuzione del lavoro ha un presupposto per nulla scontato: che il lavoro che facciamo abbia un senso. Che, oltre a far girare denaro, serva, faccia del bene, faccia felice qualcuno.

Invece la maggior parte del lavoro che facciamo è inutile.
E allora lo scopo dei soldi non è di compensarci per la vita che il lavoro ci sottrae, ma di dare un senso al lavoro che facciamo. E quindi a noi. Una identità a buon prezzo.

precarietà. è davvero un male?

non è da trascurare il lato esistenziale positivo della precarietà: per chi come me è “diversamente precario”, il potersi definire sulla base di una posizione lavorativa (che ci raccontiamo) stabile è una comodità pericolosa.

un’occasione in meno per farsi domande.
una routine che irrigidisce le giornate.
un enorme incentivo a sedersi nella propria situazione in quanto garantita. al conservatorismo sociale.
una fonte di senso di colpa nei confronti dei nostri colleghi meno fortunati.
ci autoricattiamo ad accettare il lavoro come un dato di fatto e non un modo altamente subottimale di gestire bisogni e capacità delle persone.

certo, queste non sono sbarre. ma un piano inclinato si.

stiamo insomma su una superfice esistenziale che pende di più verso l’appartenenza alla casa al lavoro al futuro. nulla che non si possa risalire volendo, ma la gravità è la gravità.

la superfice esistenziale del precario sembra più inclinata verso la non appartenenza, verso la sussistenza al presente. l’afferrare ogni occasione di gioia e di cospirazione. questo è stato quello che mi è piaciuto di questo romanzo. ben consapevole che di romanzo si tratta.

diventa più chiaro se per un momento ci permettiamo di sognare. non roba tipo lavoro dignitoso per tutti. sogni migliori. tipo la fine del lavoro e del denaro.

allora tutto quello che avremo accumulato, la nostra posizione di privilegio, le proprietà, se ne andranno in cenere. e allora perché lavorare più di quanto serva per la sussistenza?

certo è una cazzo di prospettiva millenaristica, perché la rivoluzione che abolisca il lavoro ed il denaro è un periodo ipotetico del terzo tipo.

ma pur sapendo questo, valutare il proprio presente dall’ottica dei propri sogni migliori, se i sogni sono davvero buoni, può essere illuminante.